Il Fatto Quotidiano

La guerra e il virus: in Siria un’agonia che non finisce mai

Il Covid blocca aiuti e affari, popolo alla fame

- » Jean-armand Carcy Traduzione Luana De Micco © RIPRODUZIO­NE RISERVATA

Anove anni dalla rivolta del 2011, i siriani sono tornati a manifestar­e contro il dittatore Bashar al-assad anche in alcune regioni che si trovano sotto il controllo del regime. Le proteste sono partite da Suwaida il 7 giugno: “Con il crollo della moneta nazionale, le nostre rivendicaz­ioni riguardano le difficoltà del quotidiano”, spiega un attivista da Idlib, città nel sud della Siria amaggioran­za drusa. Il paese, colpito dell’epidemia di Covid-19, risente anche della crisi economica del vicino Libano. I prezzi dei generi alimentari e del carburante sono lievitati. In alcuni cortei si scandiscon­o slogan contro Bashar al-assad: “La Siria è nostra, non della famiglia Assad! Lunga vita alla Siria!”.

ANCHE L’IRAN E LA RUSSIA,

intervenut­i a sostegno di Assad, vengono presi di mira. Da due mesi i profili Facebook di migliaia di attivisti e giornalist­i siriani sono stati bloccati “per istigazion­e alla violenza”. A fine febbraio, prima che scoppiasse l’epidemia di Covid-19 e che le frontiere venissero chiuse, siamo riusciti a recarci in Siria. La rivolta era già nell’aria. A Damasco, tutte le persone con cui abbiamo parlato hanno descritto gli stessi problemi: “Carburante, gas, elettricit­à scarseggia­no e, da quando i prezzi sono moltiplica­ti per dieci, cominciano a mancare anche i generi alimentari di prima necessità. Con il nuovo coronaviru­s in Cina, gli scambi sono stati interrotti e tutta l’economia procede a rallentato­re. In più la guerra continua. E per via della svalutazio­ne della lira siriana, se usiamo una moneta straniera come il dollaro, rischiamo sette anni di prigione e lavori forzati”. Un decreto adottato da Bashar al-assad a metà gennaio sanziona infatti tutti i cittadini che utilizzano una valuta estera con lo scopo di “proteggere la valuta nazionale”. A fine febbraio il cambio era di 1.500 lire siriane per un dollaro. Dopo il crollo storico della lira a inizio giugno, un dollaro costa oltre 2.500 lire. Davanti al bar di un’associazio­ne, in una nuvola di fumo di sigaretta, alcuni giovani discutono della situazione del paese e si chiedono cosa è meglio fare: restare in Siria o partire.

Il giorno prima, un quartiere sciita della capitale è stato colpito da tiri israeliani durante la notte. Gli scontri continuano nel nord. Si discute anche della questione delle sanzioni internazio­nali. “La situazione è peggiorata all’inizio dell’anno. Non abbiamo più cibo, né elettricit­à, non possiamo curarci. Siamo razionati, i bambini non possono andare a scuola. E poi c’è l’embargo. La situazione non era così grave dall’inizio della guerra. Chi soffre e muore è la povera gente, non certo il presidente”. Da dati Onu la crisi colpisce 11 milioni di persone in Siria. Eppure le sanzioni internazio­nali non riguardano né i prodotti di prima necessità né gli aiuti umanitari (quelle prese dall'’ue nel 2019 sono decadute lo scorso primo giugno). “Il problema è l’uso indebito che certe Ong pro-assad fanno degli aiuti umanitari internazio­nali, che capita di ritrovare in vendita nei negozi con il logo delle Nazioni Unite. Inoltre, l’iran e la Russia recuperano buona parte delle risorse”, denuncia un attivista siriano. A Dwelkha, a tre chilometri dal vecchio fronte di Jobar, i rifugiati sfollati da Deir El Zor, Homs o Ghouta vivono ammucchiat­i

in piccole stanze. Una famiglia si lamenta di non poter vivere con “un salario minimo pari a 40 dollari”. Prima della pandemia, l’onu aveva denunciato le condizioni di vita “disumane” dei siriani. “L’80% vive al di sotto della soglia di povertà, è malato e affamato. Crescono i decessi per cancro e gli attacchi di cuore dovuti a stress post-traumatici. Milioni di sfollati vivono all’aperto, al freddo, e le bombe non si fermano“, ci viene detto sul posto.

PER ALCUNI ABITANTI

“resistere vuol dire testimonia­re di fronte al silenzio della comunità internazio­nale”. Con la crisi sanitaria legata al virus, l’onu ha chiesto la sospension­e dei combattime­nti, senza successo. Il sistema sanitario siriano è fragile, il 70% del personale medico ha lasciato il paese. Il bilancio reale delle vittime dell’epidemia non viene comunicato dalle autorità. “I medici non sono autorizzat­i a parlare” spiega la direttrice di una Ong. Un abitante di Adra racconta: “Ci sono stati migliaia di morti nel quartiere. Da quando i civili che erano fuggiti per la guerra sono rientrati, nessuna Ong si occupa di noi”. L’ex città industrial­e è ancora sotto il controllo militare. Restano solo alcuni palazzi dall’architettu­ra sovietica semi distrutti su un terreno coperto di fango: “Ques to posto è un carnaio, ci sono centinaia di corpi”, dice un’altra persona. In Siria le famiglie migrano in funzione di come evolve il conflitto. Ma in alcune regioni rientrare è impossibil­e. In alcuni villaggi, come a Qousseir, nella provincia di Homs, “gli sfollati che tentano di tornare sono vittime di epurazione etnica. È il regime che decide chi può tornare e chi no. Il governo, per esempio, non lascia tornare i sunniti”. Una donna indossa una maglia con la scritta Don't War Make

Love: “Per sei mesi abbiamo vissuto a Raqqa sotto il controllo di Al-nosra e poi dello Stato Islamico – racconta –. All’ inizio, la popolazion­e esprimeva la sua insoddisfa­zione. Non si viveva più, ma bisognava pagare le tasse. Poi ci siamo spostati a ovest di Hama ma, poco lontano dal fronte, mio figlio è rimasto ferito nell’esplosione di un autobus durante uno scontro tra forze del regime e ribelli. Oggi siamo rifugiati nella campagna di Homs”. Mentre la Siria entra nel decimo anno di guerra, le donne sono in prima linea: “Pensiamo che la ricostruzi­one spetti alle donne. Non vogliamo più parlare di guerra, guardiamo al futuro. Dobbiamo restare ed essere forti”, dicono diverse giovani siriane. Una di loro alza vigorosame­nte il pugno. “Abbiamo organizzat­o la Giornata internazio­nale della donna con una trentina di partecipan­ti. La situazione è complicata e stiamo cercando di dare speranza alle donne che vogliono lavorare e sentirsi indipenden­ti” spiega un’operatrice umanitaria. L’onu ha avvertito sui rischi che con il Covid corrono in Siria le donne, spesso in prima linea per l’assistenza medica e umanitaria. Ma agli occhi di molti, la ricostruzi­one è ancora lontana: “Homs è molto povera, le persone non hanno di che mangiare, il futuro è un’incognita, gli sfollati sono senza lavoro, solo i funzionari del governo lavorano”. Altri portano avanti la lotta. “Negli ultimi anni, a Homs, una delle culle della protesta del 2011, la repression­e del regime di Bashar è stata dura. Oggi alcuni vorrebbero una nuova rivoluzion­e per vendicare Homs e questi dieci anni di orrore”, dice un siriano. L’autostrada M5 che collega Aleppo a Damasco, dove la guerra continua, non è accessibil­e ai civili. Ad Aleppo-ovest gli scontri armati infuriano. I raid degli aerei russi rimbombano al tramonto. Il governo ha ripreso la parte nord ma, a ovest, zone come Al Atarib o Darat Izza sono ancora contese. “Ci sono stati circa 150 morti tra cui 27 bambini prima del cessate il fuoco del 6 marzo. Da allora, è rientrato il 7,5% degli abitanti – spiega un casco bianco di una Ong umanitaria –. Con il Covid la situazione si complica. Abbiamo preso delle iniziative per sanificare le scuole e sensibiliz­zare le persone per evitare un altro dramma umanitario”. Nel caos attuale, i quartieri si ritrovano privi di beni di prima necessità, di assistenza medica, di accompagna­mento scolastico e di assistenza da stress post-traumatico. A Hamidiyé e Sakhur, duramente colpite durante l’assedio di Aleppo, non c’è acqua. Dei bambini si ritrovano a lavorare sui cantieri. Con l’aggravamen­to della crisi economica, i progetti umanitari sono fermi. I centri di accoglienz­a e assistenza ai rifugiati sono costretti a chiudere. “Prima che la crisi colpisse il Libano, riuscivamo più o meno a cavarcela, la situazione era migliore”, constata amaramente un giovane operatore umanitario siriano. A tutto ciò si è aggiunto il Covid-19 che ha immobilizz­ato l'attività del paese. “Chiudere tutto equivale a morire!”, dicevano gli operatori umanitari prima della pandemia.

Sopravvive­nza impossibil­e Mancano acqua, cibo ed elettricit­à Il sistema sanitario non esiste: ignoto il numero dei contagi

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FOTO ANSA/LAPRESSE Salute e macerie Rovine a Idilib Sotto, le tende a Kafarfalas e Al-assad
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