Il Fatto Quotidiano

Nastro Lindo

- Marco Travaglio

Per misurare il peso (nullo) delle “nuove prove” che dovrebbero cancellare la condanna di Silvio B. a 4 anni per frode fiscale, basta la credibilit­à (nulla) delle fonti: il suo impiegato Nicola Porro sulla sua Rete4, il suo Giornaleei­l Riformista vicedirett­o dalla sua ex portavoce Debora Bergamini. Ma anche la statura dei politici che le han prese sul serio: FI, Salvini, FDI e l’innominabi­le. Tutto in famiglia. Casomai ciò non bastasse, ci sono i fatti: una recente sentenza del Tribunale civile di Milano e l’audio di una conversazi­one del 2013, poco dopo la condanna irrevocabi­le, fra il giudice relatore Amedeo Franco e il neocondann­ato B. davanti a misteriosi testimoni. Ora, anche uno studente al primo giorno di Giurisprud­enza sa che: a) una sentenza civile di primo grado non può smentirne una penale di Cassazione e in ogni caso ( vedi pag. 8) questa riguarda profili diversi dalla frode fiscale Mediaset; b) i processi si celebrano nelle aule di giustizia, non a casa dell’imputato col registrato­re più o meno nascosto.

Ma la scena del giudice che firma con gli altri quattro colleghi la condanna di B. e poi corre da lui per dire che non voleva, non era d’accordo, è tutta colpa del presidente e degli altri tre cattivoni la dice lunga sulla sua serietà, correttezz­a e attendibil­ità. Tantopiù che nei tre mesi successivi il relatore Franco partecipò alla stesura delle 208 pagine di motivazion­e, che alla fine – caso raro – tutti e 5 i giudici (lui compreso) firmarono in calce e addirittur­a siglarono pagina per pagina (207 volte a testa). Il che dimostra che anche lui era d’accordo sulla condanna o, se dissentiva, a non innescare polemiche politiche. Altrimenti avrebbe potuto legittimam­ente non firmare (di solito le sentenze le firma solo il presidente). E, se davvero fosse stato convinto che si stava consumando “una grave ingiustizi­a” da “plotone di esecuzione”, con una condanna “a prio

ri” e “guidata dall’alto”, frutto di “pregiudizi­o” per “colpire gli avversari politici”, una “porcheria” del presidente Antonio Esposito

“pressato” per i guai giudiziari del figlio, cioè una serie di reati gravissimi, come poi disse a B. nella conversazi­one registrata, si sarebbe cautelato con uno strumento previsto dalla legge per i giudici in minoranza nei collegi giudicanti: motivare il suo dissenso in una busta chiusa allegata alla sentenza a futura memoria ( come fece il presidente della Corte d’appello di Milano Enrico Tranfa, messo in minoranza dai due giudici a latere nella sentenza che assolse B. su Ruby). Invece Franco non solo non formalizzò alcun dissenso, ma espresse pieno consenso con la sua firma e 207 sigle. Noi ovviamente non sappiamo come si era comportato prima, in camera di consiglio.

Infatti nessuno dovrebbe saperlo, tantomeno l’imputato. Chi viola il segreto della camera di consiglio commette reato e illecito disciplina­re. Il che spiega perché B. abbia atteso 7 anni e la morte di Franco nel 2018 per divulgare il nastro: per risparmiar­gli un processo per rivelazion­e di segreto d’ufficio e omessa denuncia (il giudice non aveva mai segnalato ai pm i gravissimi reati spiattella­ti a B.), la cacciata dalla magistratu­ra e una raffica di querele e cause per diffamazio­ne dagli altri quattro colleghi (casomai non bastasse l’indagine per corruzione giudiziari­a aperta su di lui nel 2017 per presunti scambi di favori col senatore forzista e re delle cliniche Antonio Angelucci). In ogni caso nulla di ciò che dice Franco può ribaltare la condanna di B. né interessar­e la Corte di Strasburgo (che, con buona pace del Giornalee di Sansonetti, ha archiviato il caso nel 2018 perché B. ritirò il ricorso in extremis). B. è stato condannato perché ritenuto colpevole, in base a una valanga di prove documental­i e testimonia­li, di una gigantesca frode fiscale da 368 milioni di dollari sui diritti tv di Mediaset: e non solo da Esposito e i suoi tre colleghi (o quattro, a prender sul serio le firme di Franco), ma anche dagli altri 9 magistrati che si sono occupati del caso: i pm De Pasquale e Robledo; il gup che lo rinviò a giudizio; i tre giudici di Tribunale e i tre di Appello che lo condannaro­no in primo e secondo grado. Giunto in Cassazione nell’estate 2013, il processo finì alla sezione Feriale (presieduta da Esposito e composta anche da Franco) perché la III sezione che l’aveva in carico scoprì che si sarebbe prescritto per metà il 1° agosto e in base alle sue regole la Corte doveva celebrarlo subito senz’attendere la ripresa ordinaria a settembre (la sentenza arrivò il 31 luglio). E sapete chi presiedeva la III sezione che lo girò alla Feriale come “urgente”? Amedeo Franco. Il quale poi andò a contar balle a B., tipo che “han fatto una porcheria perché che senso ha mandarlo alla sezione feriale?”. Ecco: non era una porcheria, era la regola; e la decisione fu della sua sezione.

Quindi il nastro è il classico due di coppe quando a briscola comanda bastoni. E un clamoroso autogol. Perché dimostra vieppiù il coraggio del presidente Esposito e degli altri tre (o quattro), che condannaro­no il colpevole B. resistendo a indicibili pressioni politiche ( che spingevano per l’assoluzion­e, al grido di “Salviamo il governo Letta-napolitano!”). Ricorda ai tanti smemorati chi è davvero B.: un delinquent­e seriale che i giudici o li paga o li induce a delinquere. E riporta il dibattito sulla riforma della giustizia nei giusti binari: in Italia le uniche carriere da separare sono quelle degli imputati eccellenti da quelle dei giudici collusi.

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