Il Fatto Quotidiano

Alleva Chi vuole più precari

- » PIERGIOVAN­NI ALLEVA

Ritorna l’idea, deprimente e inaccettab­ile, propaganda­ta dal centrodest­ra, dalla Confindust­ria e da qualche intellettu­ale “bocconiano”, che le imprese italiane abbiano necessità, particolar­mente oggi, di molta (cattiva) flessibili­tà. In particolar­e, di lavoro precario e principalm­ente di contratti di lavoro a termine “acausali”, non giustifica­ti, cioè, da un’esigenza produttiva effettivam­ente temporanea.

Per chiarire le ragioni dell’irricevibi­lità di questa pretesa di “liberalizz­azione” è un utile avere un quadro storico-sistematic­o dell’evoluzione della disciplina. Il punto di partenza è che nella realtà socio-economica le occasioni di lavoro effettivam­ente temporanee sono circa il 15% di quelle totali. Eppure le imprese assumono, per oltre l’80%, con contratto a termine, e dunque anche quando si tratta di esigenze lavorative permanenti, che renderebbe­ro naturali assunzioni a tempo indetermin­ato. E visto che a queste ultime potrebbe essere sempre legittimam­ente apposto un patto di prova, non si può neanche dire che sia il desiderio di “provare” il dipendente la spiegazion­e della “illogica” preferenza per il tempo determinat­o.

La ragione, purtroppo, può essere solo un’altra e sta nel fatto che il contratto a termine è, per così dire, “un contratto con ricatto incorporat­o”: se il lavoratore non si dimostrerà più che docile e disposto a sopportare torti piccoli e meno piccoli, alla scadenza del termine non sarà confermato, con ricaduta nella disoccupaz­ione e nell’indigenza.

Nessun consulente aziendale o esperto accademico è mai riuscito a dare una diversa risposta “eticamente decente” al ricordato paradosso. Ma quel che preme qui sottolinea­re è che il legislator­e italiano, invece, fin dall’esordio del centrosini­stra nei primi anni 60, aveva ben compreso il forte pericolo di abusi. Ha quindi introdotto una triplice tipologia di limiti all’utilizzo del contratto a termine che occorre avere ben presente per orientarsi nella materia.

A) Il limite della necessaria esistenza di “causali”, ossia di esigenze lavorative temporanee (es.: malattia di altro lavoratore; carattere stagionale dell’attività ecc.), la mancanza delle quali, in concreto, comporta la trasformaz­ione del rapporto a tempo indetermin­ato.

B) Il limite di duratamass­ima (es. 36 o 24 mesi) del lavoro a termine presso lo stesso datore, con la previsione che, una volta giunti al limite della necessaria assunzione a tempo indetermin­ato, il datore, se vuole continuare a utilizzare il lavoratore, debba assumerlo a tempo indetermin­ato.

C) Il limite di una percentual­e massima di lavoratori a termine nell’organico complessiv­o di un’impresa (es.: non più del 20%) oltre la quale si può assumere solo a tempo indetermin­ato.

Vediamo ora l’evoluzione normativa su questi limiti fino a oggi. Il limite più importante, e il più razionale, è quello delle “causali”, e all’inizio, con la legge 230 del 1962 furono stabilite delle causali “tipiche”, ossia ipotesi ben definite (es.: sostituzio­ne del lavoratore assente per malattia), al di fuori delle quali il rapporto di lavoro sarebbe stato considerat­o a tempo indetermin­ato. Fu poi concesso, con modifiche normative degli anni 80, che la contrattaz­ione collettiva potesse aggiungere altre causali tipiche, che così, in pratica, si moltiplica­rono, finché, con il D. Lgs. n. 368/2001, si è arrivati alle causali “atipiche”.

In altre parole, con la nuova disciplina, qualsiasi esigenza lavorativa poteva giustifica­re un contratto a termine, purché fosse effettivam­ente temporanea e venisse dichiarata in calce al contratto individual­e di lavoro. Il controllo era così facile e la nuova disciplina ha funzionato bene per circa 15 anni, con puntuali trasformaz­ioni a tempo indetermin­ato in caso di abusi. La rottura vera è avvenuta nel 2014-2015 con il Jobs Act (anticipato dal decreto Poletti): si è avuta l’abolizione delle causali, il dilagare del precariato, del lavoro “usa e getta” e dell’assenza di tutele. Cessato il governo Renzi, si è tornati, con governo Lega-m5s e con il decreto Dignità al sistema delle causali “tipiche” (allargabil­i dalla contrattaz­ione collettiva) ma solo parzialmen­te, perché la Lega ha imposto che per i primi 12 mesi il lavoro a termine possa ancora essere “acausale”. Neanche questa soluzione di compromess­o (e non molto tutelante per i lavoratori) basta oggi alla destra che, come sempre, vorrebbe solo avere “mano libera”, e invoca una nuova “liberalizz­azione”.

Quanto agli altri due limiti, si è avuto, ancora in pieno “Jobs Act”, il tentativo della sinistra del Pd di “scambiare” l’abolizione delle causali con la precisa determinaz­ione del secondo limite, quello della durata massima, a 36 mesi (o a cinque rinnovi

L’offensivac­onfindustr­ia e destra ora vogliono tornare al Jobs Act ed eliminare i paletti del decreto del 2018 che ha arginato i contratti a termine. Quel testo invece va rafforzato per evitare ricatti ai lavoratori

del contratto a termine). Ma si è trattato e si tratta di una tutela illusoria perché, anche una volta giunti alla soglia dei 36 mesi (o 24 mesi dopo il decreto Dignità) il datore conserva il potere decisional­e. Se vuole utilizzare ancora quel lavoratore deve ora assumerlo a tempo indetermin­ato, ma può anche lasciarlo a casa” e assumere ex novo e a termine un altro lavoratore.

Sul terzo limite, poi, si è andati indietro col Jobs Act, rispetto a quanto già affermato dalla giurisprud­enza, secondo cui i lavoratori assunti a termine ma oltre la percentual­e massima, dovevano intendersi a tempo indetermin­ato: oggi, invece, c’è solo una multa per il datore di lavoro.

Che fare, allora, per tutelare i lavoratori dal precariato senza penalizzar­e ingiustame­nte le imprese? La prima cosa è tornare a un fondamento razionale e stabilire che, per stipulare un contratto a termine, occorre sempre che esista un’esigenza lavorativa temporanea che lo giustifich­i, una causale, anche “atipica”, purché dichiarata e controllab­ile. La sanzione per l’abuso non può che essere la trasformaz­ione a tempo indetermin­ato, da applicare, come si era sempre fatto, fino al Jobs Act, anche in caso di superament­o del terzo limite, quello della percentual­e massima di lavoratori a termine sull’organico aziendale.

Ma la partita decisiva si gioca adesso sul secondo limite, quello della durata massima (e/o del numero massimo di rinnovi) del lavoro a termine. Serve una nuova previsione legislativ­a che preveda il diritto del lavoratore a termine di essere assunto prima di altri aspiranti al posto di lavoro, in caso di nuove assunzioni da parte dell’impresa, sia che si tratti di assunzioni a termine che di assunzioni a tempo indetermin­ato. Perché così si creerebbe una sorta di tapis roulant che, in un periodo non troppo lungo, porterebbe il precario (un contratto a termine dopo l’altro) sulla soglia – limite temporale (oggi 24 mesi) – dell’assunzione definitiva. A quel punto l’impresa, ameno di non assumere più nessuno in assoluto in quella qualifica, dovrà rivolgersi esclusivam­ente a quel precario, assumendol­o a tempo indetermin­ato. In questo modo si avrebbe un progressiv­o “prosciugam­ento” della palude del precariato che tanti osservator­i invece vorrebbero addirittur­a espandere con tutto il suo carico di malessere e di ingiustizi­a.

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