Il Fatto Quotidiano

Srebrenica torna a sperare 25 anni dopo il genocidio

L’attacco L’11 luglio 1995 le truppe serbo-bosniache fecero 8 mila morti. Irvin fuggì e ora torna: “Nuova vita contro i nazionalis­mi”

- » Matteo Tacconi

Kasapiè uno dei tanti piccoli villaggi che sorgono nel comune di Srebrenica, situato nel lembo orientale della Bosnia Erzegovina. Prende il nome dal torrente che lo bagna. Qualche modesta casa, una falegnamer­ia, mucche e pecore, campi di tabacco, orzo e granturco. E cinque mulini: il pane non mancava mai. Così andava la vita a Kasapi, prima della guerra.

Quando il 6 luglio 1995 le truppe serbo-bosniache lanciarono l’offensiva finale su Srebrenica, cercando di completare il processo di pulizia etnica in quest’area, ultimo bastione bosgnacco (musulmano) del Paese, gli abitanti del villaggio fuggirono. Alcuni si nascosero nei boschi, salvandosi; altri nelle caverne scavate dal tempo nelle montagne circostant­i, ma vennero uccisi. Il resto scese a valle, a Srebrenica, che sarebbe caduta l’11 luglio. Nei giorni seguenti si consumò il genocidio: 8.372 bosgnacchi furono massacrati, compreso qualche residente di Kasapi.

OGGI IL VILLAGGIO, abbandonat­o dopo la guerra, sta tornando a vivere grazie all’impegno di Irvin Mujcic, un ragazzo di 32 anni che sta realizzand­o la “Casa della natura”, fatta da cinque casette in legno e un mulino. “Sarà una fattoria didattica, per insegnare ai bambini a lavorare la terra, e al tempo stesso un campo base per fare trekking”, spiega Mujcic, che già da tempo organizza escursioni nella natura, potente, che avvolge Srebrenica: boschi, ruscelli, pendii, animali.

La Casa della natura è molto più di un’opportunit­à economica, in una terra che il conflitto ha spogliato di tutto: fabbriche, aziende, fattorie. “Il progetto che port o ava n t i serve anche a capire la lezione di Srebrenica. Non basta dire ‘mai più’”, perché vediamo che nel mondo, nonostante Auschwitz, nonostante Srebrenica, i genocidi si ripetono. Occorre andare più a fondo. Comprender­e, appunto, la lezione che il dramma di Srebrenica ci offre”. La chiave sta proprio nella natura, nella terra. “Oggi l’europa è piegata dalla crisi economica e dal nazionalis­mo, gli stessi fattori causarono le guerre nei Balcani. La guardia va tenuta alta. Dall’altra parte – sostiene Irvin Mujcic – viviamo in una società alienata, sotto la minaccia dei cambiament­i climatici: la conseguenz­a dello sfruttamen­to eccessivo delle risorse primarie. Ecco, la vicenda di Srebrenica dimostra l’importanza della natura.

Durante la guerra era impossibil­e importarvi cibo. Il sostentame­nto dipendeva dai villaggi, dalla capacità di lavorare la terra o riconverti­re risorse. A Kasapi, i mulini servirono anche come centrali idroelettr­iche, e così si ovviò alla mancanza di elettricit­à, tagliata dai serbo-bosniaci”.

La riflession­e sul genocidio può e deve suggerire un ripensamen­to dello stile di vita. “Bisogna ritrovare quella dimensione umana del saperti accontenta­re, del rispetto per la terra in cui vivi e da cui dipendi”, riflette Irvin, che proprio in queste settimane sta assembland­o le casette di legno. Quando lo avevo incontrato, a novembre, aveva appena terminato di spianare il terreno su cui sorgeranno.

Per lunghi anni, Mujcicha vissuto lontano da Srebrenica, che oggi conta 16 mila residenti. Serbi e bosgnacchi si equivalgon­o sul piano demografic­o. Nell’aprile del 1992, quando iniziarono gli scontri, lui, la madre, il fratello e la sorella riuscirono a fuggire. Raggiunser­o come profughi l’italia, stabilendo­si a Cevo, un paesino della Val Camonica, in provincia di Brescia. La madre, Nadja, vive sempre lì.

Il padre restò a Srebrenica. Nel 1993, quando l’onu la dichiarò area protetta, fu assunto come interprete per i caschi blu olandesi schierati in loco. Quando Mladi attaccò Srebrenica non opposero resistenza, né tutelarono sufficient­emente i civili. Irvin parlava spesso al telefono con il padre. Dopo la caduta di Srebrenica non lo sentì più: fu ucciso.

IRVIN È CRESCIUTO in Val Camonica, poi ha lavorato a Roma, Bruxelles e in Nord Africa, nella cooperazio­ne internazio­nale. “Da bambino s ognavo di tornare nella Srebrenica assediata e di liberare papà. Nel corso degli anni ho visitato più volte il posto dove sono nato, ma non ho mai elaborato il trauma. Era un capitolo che avevo messo da parte”.

Nel 2014 la svolta. “Pre ndendo parte alla Marcia della pace, tra Tuzla e Sarajevo, a cui ogni anno partecipan­o i sopravviss­uti del genocidio, si accese qualcosa. Mi chiesi che senso avessero la morte di mio padre, i sacrifici di mia madre per me e i miei fratelli e la mia scelta di vivere altrove, lontano; di rinunciare a migliorare questo posto distrutto. Queste riflession­i mi hanno spinto a tornare a Srebrenica”. E dunque rieccoci alla Casa della natura, il “villaggio magico” di Irvin, sostenuto anche da tante piccole donazioni private. Una piccola speranza, in questa terra difficile.

“Se lasciamo morire Srebrenica, il nazionalis­mo avrà vinto. La risposta che sentivo di dare è stata ristabilir­mi qui, realizzare qualcosa, perdonare chi ci ha fatto del mare, riallaccia­ndo con loro relazioni. Mi piace pensare che Srebrenica sia come l’araba fenice, che brucia e rinasce poi dalle sue stesse ceneri”.

Da bambino sognavo di rientrare nella città assediata e di liberare papà ucciso lì

Irvin Mujcic

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FOTO ANSA La memoria Potocari Memorial di Srebrenica. Accanto, fossa comune. Sotto l’esercito serbo
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