Il Fatto Quotidiano

Mafia Fu il pastore valdese Panascia tra i primi a denunciarl­a in Sicilia

- PADRE EUGENIO BERNARDINI*

Oggi a Palermo viene intitolata una via nel centro della città, che collega la chiesa valdese al teatro Politeama, al pastore valdese Pietro Valdo Panascia (1927-2007), coraggioso e generoso testimone di fede e di impegno sociale. La determina comunale di variazione, approvata nel luglio del 2017, reca la firma del sindaco Leoluca Orlando, uno dei protagonis­ti della recente rinascita sociale della città.

NEL LUGLIO 1963 PANASCIA fece scalpore per un manifesto contro le stragi mafiose affisso per tutta la città e intitolato “Iniziativa per il rispetto della vita umana”. Si riferiva alle stragi con esplosivo di Ciaculli e Villabate, nei pressi della città, in cui morirono 2 civili, 4 carabinier­i, 2 militari dell’esercito e un poliziotto. Rompendo il tradiziona­le silenzio sulla mafia, all’epoca neppure riconosciu­ta come tale, la chiesa valdese e il suo pastore furono i primi a Palermo ad alzare la voce e a nominare la responsabi­lità mafiosa delle stragi, al punto da suscitare la reazione della Segreteria di Stato Vaticana nei confronti dell’allora arcivescov­o di Palermo, Ernesto Ruffini, “reo” secondo il Vaticano di aver lasciato questa sacrosanta battaglia ai valdesi. Il cardinal Ruffini rispose che l’onorabilit­à della Sicilia andava difesa dalle denigrazio­ni del gran parlare di mafia di romanzi come Il gattopardo e di gente come Danilo Dolci, Panascia e i valdesi. Proprio con il sociologo e educatore Dolci, Panascia portò avanti un dialogo e una collaboraz­ione in particolar­e nella cura dei bambini di Cortile Cascino, un quartiere di estremo degrado nel centro della città di cui Dolci aveva denunciato le condizioni ( Inchiesta a Palermo,

Einaudi 1956). Più tardi Panascia creò anche le scuole e il Centro Diaconale valdese nel quartiere Noce, oggi ancora ben operativi. Nel

1968 riuscì a realizzare a Vita (Trapani) il Villaggio Speranza, composto da venti casette prefabbric­ate che furono assegnate ai terremotat­i del Belice.

Nel manifesto del ’63, risaltava a caratteri cubitali il comandamen­to “non uccidere” (Esodo e Matteo) riferito in modo esplicito alla mafia che veniva perciò accusata di non essere affatto una “onorata” società. Ci si assumeva così, a quel tempo e in quel contesto di silenzi complici, una responsabi­lità profetica che non sempre i cristiani e le chiese hanno saputo esprimere, nonostante il mandato a parlare ad alta voce sia tipico dei discepoli di Gesù: “Quello che io vi dico nelle tenebre, ditelo nella luce; e quello che udite dettovi all’orecchio, predicatel­o sui tetti” (Matteo). Quella parola, necessaria e coraggiosa, fu detta in modo pubblico e per questo oggi la città di Palermo lo riconosce con un atto che ne vuole conservare la memoria. A volte siamo portati a non considerar­e il valore delle parole, riteniamo che siano soprattutt­o i fatti a contare. Eppure le parole contano, ci formano, ci educano, ci istruiscon­o, ci fanno conoscere l’amore e ci aiutano a esprimerlo, guariscono le ferite dell’anima, ci danno la visione di quello che può essere il nostro futuro. Ma le parole sono anche una forza potente di distruzion­e e di morte. Per questo Gesù ricorda che il non uccidere comprende anche il non adirarsi verso il prossimo e non chiamarlo stupido e pazzo (Matteo). E anche per questo che Gesù pronuncia una parola che mi ha sempre colpito personalme­nte in quanto “profession­ista” della parola: “Io vi dico che di ogni parola oziosa che avranno detta, gli uomini renderanno conto nel giorno del giudizio; poiché in base alle tue parole sarai giustifica­to, e in base alle tue parole sarai condannato” (Matteo).

* Già moderatore della Tavola Valdese

AD ALTA VOCE LE PAROLE CONTANO: CI FORMANO ED EDUCANO, MA ANCHE DISTRUGGON­O

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