LAVORO, BASTA CON I TABÙ SI PUÒ RIDURRE L’ORARIO
Lo slogan “l av ora r e meno per lavorare tutti” dà un’idea errata del problema della riduzione dell’orario di lavoro. Sottintende l’idea che si possa prendere il numero complessivo delle persone disposte a lavorare, dividerlo per il numero dei posti esistenti e calcolare così di quanto debba ridursi la durata lavorativa per addetto in modo da garantire la piena occupazione. Ma se questa visione non ha fondamento scientifico, altrettanto infondata è quella che ritiene assolutamente immodificabile l’attuale assetto dell’orario di lavoro; vige in molti l’illusione secondo la quale quanto più lunga è la permanenza di un individuo nel luogo di lavoro tanto migliore sarà la qualità e la produttività del lavoro. I guai e le distorsioni operative derivanti da questa illusione non sono minori di quelli derivanti dalla prima.
IL PROBLEMA
della durata dell’orario di lavoro va invece affrontato razionalmente, specie ora che la pandemia ha stimolato profondi cambiamenti strutturali. Due ulteriori fatti inducono a ragionare sul problema: da un lato la grande diversità delle ore lavorate per addetto nei diversi Paesi. Come è noto, l’italia con le sue 1719 ore medie di lavoro all’anno per addetto ( contro le 1360 della Germania) è ai primi posti in classifica, ma ciò nonostante è agli ultimi posti nella scala della produttività per addetto; d’altro lato la tendenza storica: perché mai si dovrebbe arrestare ora questa tendenza proprio mentre il tasso di progresso tecnico e la riduzione dei coefficienti di lavoro subiscono un’accelerazione?
Il problema ha molte facce ( qualità della vita, impatto sull’ambiente, etc.). Limitando la riflessione agli aspetti economici, tre principali ordini di problemi vanno approfonditi e su questi si può ormai registrare una gran varietà di esperienze concrete. Il primo riguarda l’organizzazione del lavoro a livello di impresa. La riduzione dell’orario di lavoro comporta una grande sfida di riorganizzazione dei processi produttivi, perché non sempre una specifica mansione può essere suddivisa in più frazioni complementari per aumentare (o consolidare) il numero degli addetti: si potrebbe rischiare di compromettere la produttività totale dell’impresa. Quand’anche la riorganizzazione dei processi e la riduzione dell’orario fossero accompagnati da un aumento della produttività del lavoro, questo impedisce di pensare che la riduzione dell’orario si converta automaticamente in un proporzionale aumento degli addetti. Il che, a livello macroeconomico, significa che non si può assumere una relazione di proporzionalità tra riduzione dell’orario e aumento dell’occupazione. Circa la relazione tra aumento di produttività e riduzione dell’orario si può ipotizzare un rapporto causale bidirezionale: molti studi teorici e molte rilevazioni empiriche suggeriscono che la riduzione degli orari individuali di lavoro generi un incremento di produttività oraria. Si aggiunga che la strutturazione per turni accresce il COT (
capital
operating time) contribuendo a ridurre il costo totale per unità di prodotto. Il secondo ordine di problemi riguarda il livello del salario. È chiaro che se la riduzione dell’orar i o di lavoro è accompagnata da un corrispondente incremento della produttività per ora lavorata, la produttività per addetto, e con essa il salario, può essere mantenuta costante. Ma se così non fosse, sarebbero inevitabili ripercussioni o sul salario, o sui profitti, o sui prezzi relativi. Sarebbero quindi necessari accordi contrattuali per definire un giusto equilibrio. Il terzo ordine di problemi riguarda l’ambito di applicazione. Una riduzione generalizzata imposta a tutto il sistema economico creerebbe non pochi stravolgimenti del tipo sopra descritto proprio come conseguenza dei diversi tassi di crescita della produttività. Sarebbero preferibili riduzioni concordate settore per settore o azienda per azienda, per individuare specifici equilibri tra le variabili in gioco. Ma ciò a sua volta potrebbe dar luogo a diseguaglianze troppo accentuate in termini di durata dei tempi di lavoro. Resta l’opzione dell’intervento dello Stato per integrare il salario laddove la riduzione dell’orario comporti una perdita della produttività per addetto. Esperienze svedesi, la proposta del sindacato tedesco IG Metall, ma anche il recente “Fondo per le Competenze” in Italia, sono su questa via. D’altronde se la riduzione dell’orario comportasse una riduzione dei licenziamenti lo Stato risparmierebbe sui sussidi di disoccupazione.
In conclusione: il problema merita di essere affrontato e varie soluzioni operative devono essere esaminate, “laicamente”. Ci sono molti studi teorici e molte esperienze concrete, soprattutto a livello internazionale, a disposizione. Le parti sociali e il governo hanno abbondante materiale su cui riflettere per individuare soluzioni graduali ed equilibrate.