Il Fatto Quotidiano

KYOTO, IL VEDOVO KOJIRO SI CONSOLA PRESTO LUCIDANDO LA SUA SPADA

- DANIELE LUTTAZZI

Dalle Fiabe apocrife di Asai Ryoi. Il quarto mese del quarto anno di Kanbun, Kojiro poteva dirsi l’uomo più felice delle 36 province. La sua reputazion­e come maestro rifinitore di spade era cresciuta insieme con la sua fortuna, e adesso la sua casa era fra le più belle di Kyoto; il suo negozio, il più indaffarat­o. “E tutto grazie al mio segreto!” pensava Kojiro mentre passava la spada alla fiamma. Rideva del suo piccolo trucco, che del resto non era affatto un segreto: ne parlava con entusiasmo a chiunque glielo domandasse. “Come molte cose nella vita, la mia scoperta avvenne per caso. Ero ancora un giovane apprendist­a, quando una sera, nella bottega del mio maestro, mentre facevo l’amore con sua figlia Akiko, vidi con orrore che la schiuma dei miei lombi, invece di aver irrorato il suo giardino segreto, aveva macchiato la lama della spadamuram­asa sulla quale avevo lavorato per quasi un mese! Dovevo fare presto. Spolverai subito la polvere kanahada sull’acciaio bagnato, e la strofinai insieme con la mia neve fumante. E così scovai il superbo elisir, con cui ottengo la finitura più brillante che si sia mai vista sulle leggendari­e spade di Yamato”.

Ma la vita di un uomo non è mai senza pena. Un anno dopo il loro matrimonio, Akiko era morta, lasciando vuoto il cuore di Kojiro, e pieno di desiderio il suo stocco. “Un appetito che può essere saziato”, disse con malizia il vecchio Hakiro alla sua bella figlia, Naoko. Hakiro era il rivale più pericoloso di Kojiro: un tipo avido, disonesto come un mercante di Kamigata. “Chiunque abbia tentato di ripetere la formula di Kojiro ha fallito. Anche io ho usato il mio seme sulle lame, invano. Devo avere quello di Kojiro”.“obbedirò”, disse Naoko. “Devo però ricordarti, padre, che il daimy di Kobe mi ha chiesto come concubina. Il mio valore non sarà sminuito se dovessi portare in grembo il figlio di un comune artigiano?”. “Vero”, convenne Hakiro, e le diede una scatolina che conteneva guaine della più sottile membrana di pesce, fabbricate nei lontani territori di Ezo. “Userai queste per raccoglier­e il seme di Kojiro: non voglio che la spuma di quel diavolo trovi dimora nella tua pancia”. Forse Naoko avrebbe protestato, se avesse avuto la virtù di una monaca Jizai, o Kojiro la bruttezza di suo padre; ma lei non la aveva, e lui non la aveva; così, con una certa umidità nella fessura, due notti dopo la ragazza si presentò a casa di Kojiro. Questi arrossì quando Naoko gli toccò la mano con le sue dita delicate. “Da mesi passo davanti alla tua bottega per vederti”, gli disse. “Non sei la figlia del vecchiohak­iro?” le chiese. “Sì, ed è per questo che ho cercato di resistere al tumulto del mio cuore”, mormorò lei. Quella sera, la katana di Kojiro ritrovò la sua saya. Stordita dalla passione, Naoko non notò che i colpi, all’inizio come onde gentili dell ’oceano, s’erano mutati in quelli della tigre che spinge attraverso una corrente: quel ritmo vigoroso avrebbe lacerato il fodero più spesso. Solo quando fu tornata a casa Naoko scoprì il fallimento del piano di suo padre. “Ma per Inari, non rinuncerò”, gli giurava. “Proverò di nuovo e di nuovo, se devo”.

E così provo e riprovò, con l’ardore più ammirevole. I suoi sforzi furono pari a quelli di Kojiro, che era ben contento di spargere la sua semente in un terreno più adatto a riceverla, invece che sulla lama d’acciaio di una spada. Quanto al vecchio Hakiro, non poteva che ribollire di frustrazio­ne; poi, il primo mese del quinto anno di Kanbun, si recò al tempio di Rozan per il matrimonio della figlia, ancora più radiosa ora che portava in grembo il figlio del più famoso rifinitore di spade di Kyoto.

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