Zinga si è stufato: sarà dimissionario all’assemblea Pd
SFIDANTI BONACCINI
E I SINDACI “PRONTI”. FRANCESCHINI SPERA CI RIPENSI
Nicola Zingaretti si dimetterà nell’assemblea nazionale del Pd convocata per il 13 e 14 marzo. Almeno, sono le intenzioni del segretario in queste ore, anche se parte del partito – Dario Franceschini in testa – sta cercando di convincerlo a restare. D’altra parte viene considerato dai big dem come il miglior garante dell’equilibrio attuale. Zingaretti, in realtà, sta valutando due opzioni: presentarsi traghettatore, fino a un congresso in data da stabilire (magari in autunno), o direttamente dimissionario. Qualcuno tra i suoi spera che le dimissioni siano un rilancio. In molti scommettono che ci ripenserà. Ma ieri l’addio era stato già minacciato imminente. E una via d’uscita il segretario la cerca da tempo: gli sarebbe piaciuto entrare nel governo Draghi, ma ha dovuto rinunciare per evitare l’ingresso di Matteo
Salvini. Sta valutando di candidarsi a sindaco di Roma, se – come pare sempre più probabile – le Amministrative dovessero essere spostate a ottobre.
L’amarezza è latente da mesi, ma è andata crescendo nelle ultime settimane. Fa “il notaio degli accordi di corrente”, dice con disappunto anche chi gli sta vicino. D’altra parte, la sua linea politica è stata sconfessata più di una volta. Nell’estate del 2019 fece partire – suo malgrado – il governo giallorosso. Nella partita che ha portato al governo Draghi, fino all’ultimo minuto utile, ha sostenuto la linea “o Conte o voto”. Non solo: sembra ormai definitivamente tramontato il progetto che voleva l’ex premier federatore dell’alle anza strutturale Pd- M5S- LEU ( l ’ “am al ga ma ” teorizzato da Goffredo Bettini), con il fallimento dell’intergruppo in Parlamento e lo stop, arrivato dalla segretaria regionale della Toscana, Simona Bonafè, all’idea di offrire a Conte il seggio di Siena, lasciato libero da Padoan. Ci stavano lavorando i vertici nazionali, con l’ausilio di quello che chiamano il “Richelieu della Toscana”, Stefano Bruzzesi, stratega politico del governatore, Eugenio Giani. “Se la stavano confezionando a Roma senza dirmi niente”, racconta la Bonafè. Che poi, all’ultima intervista contro la sua linea, ha deciso far fuori il suo vice, Valerio Fabiani, zingarettiano.
IL CASO TOSCANO
è deflagrato proprio mentre Zingaretti diventava la barzelletta del giorno per un tweet in difesa di Barbara D’urso. E il Pd nazionale litigava furibondamente per la lista dei sottosegretari. In questo caso, la rivolta delle donne per essere state escluse dai posti da ministro, si è unita alla guerra tra correnti (al governo i tre rappresentanti di maggior peso, Andrea Orlando, Lorenzo Guerini e Franceschini). A tenere in mano il filo della trattativa è stato più il neo ministro del Lavoro, Orlando (da molti additato come uno di quelli che hanno spinto troppo in là la critica al governo Conte), del segretario. Lui non è riuscito a far confermare Andrea Martella all’editoria, ma Zingaretti è riuscito a far entrare per il rotto della cuffia solo la Alessandra Sartore, sua Assessora in Regione, al Mef (era in alternativa a Sandra Zampa, spinta da Romano Prodi). Unico segretario di partito a non avere neanche un ministro in quota “propria”. La riconferma più importante, Enzo Amendola agli Affari europei, è stata voluta dallo stesso Draghi su input di Sergio Mattarella. Zinga è rimasto ai margini pure di questa partita.
È iniziata anche la lotta per la successione. Stefano Bonaccini, governatore dell’emilia Romagna, è pronto da mesi. Ma vuole essere il candidato di tutto il partito e non di Base Riformista (la corrente di Guerini e Luca Lotti). Tutto sta a capire quanto garantisce le varie anime dem e se stringe accordi anche con quella parte di Iv pronta a ritornare nel Pd (sospetti vogliono che voglia rientrare anche Matteo Renzi, ma lui punta a fare un partito di centro, con Forza Italia e Carlo Calenda). Si è avviata pure la competizione tra i sindaci. Giorgio Gori (Bergamo), Dario Nardella (Firenze), e anche Antonio Decaro (Bari) non lesinano critiche alla gestione del Pd. Ieri il sindaco di Bari su Repubblica ha parlato di un partito degli amministratori. Tutti sono potenziali candidati alla segreteria, in alternativa a Bonaccini. Tutte figure che – almeno in qualche fase – sono state molto vicine a Renzi.
In tutto questo c’è un tema logistico non secondario: in tempi di pandemia un congresso con le primarie è impensabile. Non un ostacolo di poco conto sulla strada di quello che un alto dirigente dem definiva “il partito che deve garantire il sistema politico”.