Acqua, arriva il Commissario Draghi punta sulle maxiopere
Dopo mesi di silenzi, nonostante gli allarmi noti sin dall’inverno, solo domani dal governo arriverà una prima risposta alla siccità che tormenta l’italia come non accade da 70 anni. Sarà formalizzata in un decreto legge e ruoterà intorno a un commissario straordinario, con una struttura di una trentina di persone e 20 interventi prioritari, in sostanza maxiopere soprattutto sulle reti idriche, da realizzare entro fine 2024. Tra i nomi che girano per la poltrona c’è quello di Fabrizio Curcio, capo della Protezione Civile. Intanto si allunga la lista di regioni e comuni che chiedono misure contro l’emergenza che riguarda almeno un terzo del Paese.
SECONDO LE BOZZE che circolano, nel decreto il ruolo assegnato al commissario straordinario sarà di individuare insieme ai ministeri delle Infrastrutture, Transizione ecologica e Politiche agricole e con le Regioni “gli obiettivi correlati alla necessità di garantire una sufficiente risorsa idrica anche nei periodi di siccità”, “coordinare e sovraintendere” la programmazione e realizzazione degli interventi necessari e “promuovere il potenziamento e l’adeguamento delle strutture idriche”. Il tutto attraverso “piani straordinari degli interventi” privilegiando quelli interregionali o “immediatamente cantierabili”. Quanto alla gestione dell’acqua, il commissario definirà i criteri con i quali le Autorità di bacino ne pianificheranno l’uso e verificherà l’asto da parte delle Regioni delle misure per razionalizzare i consumi ed eliminare gli sprechi. Lo strumento per garantire la realizzazione di questo “vasto programma” è la semplificazione burocratica: in caso di stato di emergenza potrà emettere ordinanze “in deroga a ogni disposizione di legge escluse quella penale, le leggi antimafia, il codice dei beni culturali e i vincoli legati all’appartenenza alla Ue”, comprese decisioni per avviare o proseguire “lavori anche sospesi”.
Tra i primi interventi ci sono ordini di rilascio di acqua dalle dighe, collegamenti tra acquedotti vicini, possibili razionamenti locali, rimborso alle spese per le autobotti. Domani dovrebbero essere approvate le dichiarazioni di stato d’emergenza delle regioni e gli aiuti ai settori più colpiti, agricoltura in primis. Sono sei, al momento, le regioni che hanno formalmente inviato alla Protezione civile la richiesta di riconoscimento dello stato di emergenza per la siccità: Lombardia, Emilia Romagna, Lazio, Piemonte, Friuli Venezia Giulia e Veneto. I primi stanziamenti si aggirerebbero su diverse decine di milioni. Solo l’assessore lombardo all’agricoltura Fabio Rolfi stima in 4-500 milioni i danni ai raccolti andati persi o minor produttività. Poi ci sono quasi duecento comuni (nelle ultime ore si sono aggiunti grandi capoluoghi come Verona e Pisa) che hanno emanato ordinanze contro gli sprechi. L’autorità di bacino del Po ha deciso la riduzione del 20% dei prelievi irrigui rispetto ai valori medi dell’ultima settimana, l’aumento del 20% dei rilasci dai grandi laghi alpini (Maggiore, Como, Iseo, Idro e Garda) rispetto al valore odierno e la verifica di possibili rilasci aggiuntivi giornalieri dagli invasi idroelettrici.
“SULL’ACQUA paghiamo vent’anni di errori sulle infrastrutture: carenza di invasi, troppa acqua di superficie usata rispetto a quella di falda, un sistema frazionato di gestione che non ha senso. A tutto quedozione si aggiunga che sono tre anni che piove poco, anche se con una situazione infrastrutturale e di gestione diversa questa emergenza sarebbe stata mitigata”, ha detto ieri in un’intervista il ministro della Transizione ecologica Roberto Cingolani. “Una priorità è quella di mettere mano a quel 40% d’acqua che ogni anno va perduto in Italia su 24mila chilometri di acquedotti.
Poi occorre fare nuovi invasi, che servono sia per l’agricoltura ma anche per l’energia. Un quarto della riserva d’acqua in Italia basterebbe a irrigare tutta l’agricoltura”.
IL RISCHIO però è che l’emergenza siccità divenga l’alibi per scatenare gli animal spirit degli investitori privati, ribaltando le decisioni parlamentari e popolari. Il movimento per l’acqua bene comune e le organizzazioni ambientaliste hanno risposto con una mobilitazione che ha consentito di bloccare la mossa del governo che con il disegno di legge Concorrenza, votato il 30 maggio dal Senato e ora all’esame della Camera, voleva che la gestione dell’acqua, come quella di tutti gli altri servizi pubblici locali, venisse di fatto privatizzata. Si è cercato così di tutelare il consenso popolare raccolto nel referendum del 2011, quando con il quorum del 54% e il 94% di “sì” 27 milioni di italiani votarono per la gestione pubblica del servizio idrico. Il rischio concreto è l’accaparramento degli ambiti del Sud, con oltre 900 fornitori di servizi su territori di dimensione ritenuta non sufficiente a consentire né remunerare gli investimenti sulla rete, da parte di grandi aziende multinazionali o di utility del Centro-nord, orientate ai profitti.
Dopo il referendum del 2011, l’intergruppo parlamentare “acqua bene comune” depositò alla Camera il testo aggiornato di una proposta di legge di iniziativa popolare per liquidare gli azionisti privati e trasformare la natura di tutte le società, attualmente di diritto privato, in enti di diritto pubblico. Secondo Utilitalia, l’associazione dei gestori, la riforma sarebbe costata 15 miliardi, mentre i movimenti per l’acqua pubblica calcolavano invece tra 1,5 e 2 miliardi. Oggi Draghi annuncia un grande piano di interventi che incorpori e aumenti i 4 miliardi stanziati per l’acqua dal Pnrr. Secondo Cingolani “nel Pnrr abbiamo misure colossali, si parla di cinque miliardi”. Ma erano 26 i miliardi necessari secondo uno studio dell’istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra). La vera battaglia dell’acqua dunque inizia ora proprio sul fronte degli investimenti, specialmente nelle reti.
IL RISCHIO È DI DARE AI PRIVATI LE CHIAVI DEL SETTORE