Ciconte su mafia, Dc e Mani pulite 1992, la serie (di stragi) da un’idea di Totò Riina Ma lo Stato dov’era? Troppi misteri irrisolti
Qualche storico lo ha definito “anno traumatico” o “anno rivelatore”. Enzo Ciconte, docente di Storia delle mafie italiane e già consulente della Commissione parlamentare antimafia, parla del 1992 come dell’anno “che cambiò l’italia”. In effetti, in quei mesi accadde di tutto: la crisi economica, le inchieste di Mani pulite, la caduta della Prima Repubblica e dei vecchi partiti fino agli attentati a Giovanni Falcone e a Paolo Borsellino. In realtà, però, se certamente segnò un radicale mutamento del Paese visto che Silvio Berlusconi stava già preparando la sua discesa in politica, il 1992 fu anche il seguito di una lunga stagione italiana di delitti, strategie della tensione e terrorismo politico-mafioso che avevano coinvolto apparati dello Stato più o meno “deviati”.
A QUELLE VICENDE CICONTE dedica il saggio 1992. L’anno che cambiò l’italia. Da Mani pulite alle stragi di mafia (Interlinea), in cui, oltre a ripercorrere scrupolosamente quei “fatti traumatici”, pone soprattutto interrogativi destinati a restare senza risposta. Sono domande che riguardano principalmente la fine del pluridecennale “patto di convivenza tra la Dc e la mafia”, simboleggiato dall’omicidio di Salvo Lima e le stragi di Capaci e di via D’amelio: “Che non abbia agito solo la mafia sono in tanti a pensarlo”.
Scrive Ciconte a proposito dell’omicidio di Falcone e Borsellino che, nel 1992, “il capo di Cosa nostra era Totò Riina, lo stesso che comandava la commissione provinciale nel 1982. Era davvero convinto che lo Stato non avrebbe reagito o qualcuno aveva dato assicurazioni in tal senso? Aveva fatto tutto da solo o c’era qualcuno che chiedeva, pretendeva, suggeriva cosa fare? Sbagliò solo lui? O invece non si trattò di un errore, ma di un disegno, perché da Nord a Sud era necessario cambiare radicalmente e bruscamente una classe dirigente benemerita per il passato, ma oramai inservibile per il presente e per il futuro? La strage di Capaci portò infatti alla sconfitta di Andreotti nella sua corsa al Quirinale. Azzoppato, da lì a poco sarebbe stato messo sotto accusa in Commissione antimafia e sotto processo dalla magistratura palermitana”.
Perché poi, prosegue lo storico, “uccidere Borsellino a distanza di così poco tempo da Falcone, accelerando bruscamente l’assassinio? Davvero i vertici di Cosa nostra pensavano che lo Stato non avrebbe reagito in tutte le sue articolazioni e con la maggiore forza possibile? O c’è stato chi ha dato assicurazioni in tal senso? Qual era il pericolo immediato che rendeva indifferibile l’eliminazione di Borsellino? Qualcosa di particolarmente grave ci deve essere stato, se è vero che c’è stato un depistaggio di proporzioni inaudite. Perché a un certo punto la fretta s’impadronì di Riina che, secondo il collaboratore di giustizia Gangemi, volle ‘fare veloce’? Sono tutti interrogativi che non hanno una risposta, se non parziale o monca”.