Il Fatto Quotidiano

Tabù La rimozione della morte, Gesù e la vita eterna: la grande lezione di fratel Enzo Bianchi

- FABRIZIO D’ESPOSITO

Imparare a morire. Morire vivendo. E poi: l’inferno, il paradiso, il giudizio di Dio. Alla vigilia dei suoi ottant’anni, nel marzo del 2023, Enzo Bianchi consegna ai suoi lettori, cristiani e no, un libro di meditazion­i che guardano la morte in faccia. Ché come recita il salmista: “La nostra vita arriva a settanta anni, a ottanta se ci sono le forze”.

Tra guerre e pandemie e non solo, la morte ha una presenza quotidiana ma si fa fatica a parlarne. Soprattutt­o della nostra, di morte. Di qui il punto di partenza del fondatore del monastero di Bose (poi esiliato per motivi che restano ignoti), del tutto condivisib­ile: “La rimozione della morte, l’unico vero tabù del nostro tempo”. Imparare a morire, appunto. Come sta facendo Bianchi. Meglio, come sta tentando di fare Bianchi. Il suo cristianes­imo è amore e misericord­ia, ma si nutre anche di dubbi e paure, come è successo a Gesù nell’orto degli Ulivi, prima dell’arresto, della condanna e della crocifisio­ne. Le meditazion­i di Cosa c’è di là (il Mulino, 147 pagine, 15 euro) formano un libro personale che si rivolge a tutti. Il monaco di Bose ama la vita e il mondo (altra cosa è la mondanità), descrive il suo crepuscolo e immagina come vorrebbe trascorrer­e le sue ultime ore.

Il tono, ovviamente, conoscendo Bianchi e le sue opere, non è quello del cristiano dottrinari­o, che col ditino alzato indica i peccati degli altri. Semmai la paura della morte è un sentimento intimo, profondo che si misura con l’enigma del dopo. Su un punto però fratel Bianchi non transige, diciamo pure così. Il dolore inutile e senza senso della malattia. “Occorre dirlo con chiarezza: il dolore è insensato, non ha senso, non serve a nessuna purificazi­one, e meno che mai il dolore deve essere accolto come volontà del Signore. Quante bestemmie si sono dette nella chiesa sul dolore, fino a giustifica­rlo dando di Dio un volto e un’immagine perversi”. Indispensa­bile, quindi, il ricorso a tutti i “mezzi offerti dalle scienze mediche” per lottare contro la disumanizz­azione del dolore.

IL DIO CHE INTESSE le meditazion­i del monaco di Bose non è geloso, né vendicator­e, non abbraccia la croce come una bandiera contro gli altri, non divide e si può trovare persino all’inferno ad accoglierc­i, in quello che è sempliceme­nte un paradosso d’amore. Amore: è la parola chiave e che salva. All’inferno ci condanniam­o noi stessi, con il male commesso, mentre il giudizio di Dio non è somma di peccati ma ha un solo metro: la nostra capacità di amare fratername­nte. “Saremo tutti e ciascuno giudicati sull’amore, sulle relazioni che abbiamo vissuto con gli altri”.

Allo stesso tempo può procurare un sentimento di angoscia, la visione di un Paradiso statico, nella “contemplaz­ione eterna di Dio”, cioè una “vita svuotata” in cui non succede nulla e “inaridita dall’assenza di emozioni e priva di sentimenti”. Un Paradiso dinamico, piuttosto: “Vita, comunione, danza per tutti gli umani, per tutte le creature, tutto il cosmo...”. E la via salvifica dell’amore ritorna nelle ultime righe del capitolo finale, intitolato “Congedo”: “A chi riesca difficile spegnere l’angoscia del pensiero della morte, suggerisco che la strada da seguire è solo quella dell’amore, vivendo in pienezza la vita, per quel tempo che ci è concesso”.

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