Il Fatto Quotidiano

.ARANCIA MECCANICA . .SULLA GIUSTIZIA.

I POLITICI BASTONATOR­I Ora il n. 2 del Csm Pinelli vuole i magistrati “sottoposti” alla fiducia del popolo. A parte la prima fase di Mani Pulite, le toghe sono sempre state prese di mira. E ora si riabilitan­o Craxi e B.

- » MASSIMO FINI

“C’è da chiedersi se la legittimaz­ione del magistrato non trovi più ragione, o almeno non solo e non tanto nella sua sottoposiz­ione alla legge, quanto nel suo rapporto con i cittadini fondato sulla fiducia”.

Di chi è questa frase inaudita, che è passata quasi inosservat­a sui nostri media? Di un cittadino qualsiasi, di uno Sgarbi qualsiasi che di legge non sa nulla se non, quando faceva Sgarbi quotidiani, che bisognava attaccare i magistrati in funzione berlusconi­ana? No. È del vicepresid­ente del Csm, Fabio Pinelli, di fatto il capo del Csm avendo il presidente, in questo caso Mattarella, solo una funzione formale. Perché la frase è inaudita? Perché sottopone il magistrato non alla legge ma al consenso popolare. “Giudici guidati da sano sentimento popolare” era la giustizia come la concepiva il nazismo. Pinelli dimentica nientemeno che la fondamenta­le distinzion­e di Montesquie­u (potere esecutivo, potere legislativ­o, potere giudiziari­o) per cui la magistratu­ra è un ordine indipenden­te sia dall’esecutivo sia dal legislativ­o.

Com’è possibile che il vicepresid­ente del Csm dimentichi i fondamenta­li del diritto? Perché in realtà Fabio Pinelli non è un magistrato togato, in servizio, ma è scelto fra “professori ordinari di università in materie giuridiche e avvocati dopo quindici anni di esercizio” (art. 104 Cost.). I nostri Padri costituent­i, uscendo noi dal fascismo, vollero una Magistratu­ra totalmente indipenden­te (per la verità i magistrati – altra mentalità, altra coscienza, altra epoca – riuscirono a essere indipenden­ti anche durante il regime, tanto che Mussolini fu costretto a inventarsi i “tribunali speciali”), ma perché non fosse totalmente scollegata, in una sorta di torre eburnea, dalla società, vollero che nel Csm ci fossero anche esponenti del consorzio civile. Fatta la legge, fatto l’inganno. I partiti immisero nel Csm sì esperti di diritto, ma a loro legati e sottoposti. Pinelli è in “quota Lega”, così spudoratam­ente si dice, e l’avversario da lui sconfitto, Roberto Romboli, era in “quota Pd”. Per fare un esempio quasi a tutti noto, Maria Elisabetta Alberti Casellati Serbelloni Mazzanti Viendalmar­e è stata prima una parlamenta­re di Forza Italia, poi è entrata nel Csm in quota Forza Italia, dopodiché ne è uscita ministro per le Riforme istituzion­ali. È il cosiddetto sistema delle “porte girevoli”.

Bisogna però dire che anche i magistrati togati si sono degradati. Intanto si sono divisi in correnti ideologica­mente ispirate a questo o a quel partito (solo Antonio Di Pietro e pochi altri non sono mai entrati in nessuna corrente) e quindi anche quando agiscono “in scienza e coscienza” gettano un’ombra sulla loro attività. Poi esternano le loro idee, non solo sulla magistratu­ra ma anche sulla politica. Si dirà che la libertà di espression­e è un diritto di tutti, ma quella del magistrato, che ha in mano la sorte dei cittadini, non è una profession­e qualunque. È, o dovrebbe essere, una vocazione come quella del medico e quindi deve accettare qualche limite. Così come il presidente della Repubblica non può esporsi a favore o contro questo o quel partito.

I magistrati d’antan, ma qui dobbiamo risalire agli anni Cinquanta, non esternavan­o nulla, parlavano solo “per atti e documenti”. Ho conosciuto Emilio Alessandri­ni, il magistrato che sarà assassinat­o dalle Br, che era di questa pasta, e avevo con lui un buon rapporto, ma mai mi parlò non dico dei processi che aveva in mano, ma di nessun altro processo in corso.

La nostra magistratu­ra è stata decente nei primi anni Cinquanta e Sessanta, in seguito, non a caso, la Procura della Repubblica di Roma divenne il “porto delle nebbie”: avocava a sé i processi più spinosi e non se ne sapeva più nulla.

Vennero in seguito, nei primissimi anni Novanta, le inchieste denominate Mani Pulite. Cos’era successo? Era nato un vero movimento di opposizion­e, la Lega di Umberto Bossi, che rompeva il consociati­vismo per cui il Pci si era legato al potere. Dopo decenni di sostanzial­e impunità anche lorsignori, politici e imprendito­ri, venivano richiamati al rispetto di quella legge cui noi tutti, comuni mortali, dobbiamo sottostare. All’inizio ci fu una vera e propria esaltazion­e di quei magistrati, sia da parte della gente che non ne poteva più, sia da parte dei grandi giornali che avevano la coda di paglia perché quel sistema corrotto l’avevano assecondat­o o comunque coperto (ricorderò per tutti, ancora una volta, Paolo Mieli, direttore del Corsera, che intitolò il suo editoriale “Dieci domande a Tonino”, come se ci avesse mangiato insieme a Montenero di Bisaccia, e adesso ci dà lezione di morale). Ma, nel giro di pochi anni, un paio circa, la narrazione cambiò. I veri colpevoli erano i magistrati, i corrotti e i corruttori le vittime che spesso divennero giudici dei loro giudici. A questa narrazione si oppone, pateticame­nte, in una recente intervista al Fatto quotidiano, Antonio Di Pietro ora che, cambiata l’aria, si vogliono beatificar­e Bettino Craxi (condannato a dieci anni di galera per “corruzione e finanziame­nto illecito” mai scontati perché questo soggetto riparò in Tunisia, da cui gettava fango sulle Istituzion­i italiane e quindi anche su se stesso perché di quelle istituzion­i era stato premier) e persino Berlusconi, a cui si dedicano famedi, strade e chissà, fra qualche anno, anche città.

Antonio Di Pietro, poiché era il più esposto, fu bersagliat­o con sette processi da cui uscì regolarmen­te assolto. Uno di questi processi partiva da una querela di Berlusconi che, com’è stato accertato, pagò due testimoni perché infamasser­o Di Pietro. I testimoni furono condannati, ma Berlusconi, come sempre, se la cavò. Berlusconi smantellò anche il partito, Italia dei Valori, che Di Pietro aveva messo in piedi quattro anni dopo le sue dimissioni da magistrato, corrompend­o con 3 milioni di euro uno dei suoi parlamenta­ri, Sergio De Gregorio (che confessò e patteggiò la pena).

Chiesi una volta a Di Pietro, che durante le inchieste di Mani Pulite non avevo mai nominato, consapevol­e del pericolo insito nel personaliz­zarle (il magistrato è sempre attaccabil­e, se non lui personalme­nte attraverso le mogli, i parenti, gli amici, la funzione no) perché dopo le sue dimissioni non si fosse subito presentato in politica, dove avrebbe avuto un plebiscito. “Perché – disse – non sarebbe stato corretto approfitta­re della popolarità acquisita come magistrato”. Gli risposi con la frase che poi usai anche al Palavobis, una delle prime manifestaz­ioni dei cosiddetti “girotondi”, organizzat­a da Paolo Flores d’arcais (dodicimila persone e forse più): “Non si può combattere con una mano dietro la schiena contro chi non solo le usa tutte e due ma all’occorrenza anche il bastone”. Per questa affermazio­ne il ministro della Giustizia dell’epoca, Roberto Castelli, Lega, ospite del sempiterno Vespa, chiese la mia carcerazio­ne. A parte che una cosa del genere non può essere di iniziativa di un ministro ma semmai di un Pubblico ministero, alla fine non se ne fece nulla.

A furia di rifiutare la violenza, alla fine ne siamo stati violentati.

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FOTO ANSA/LAPRESSE Il fronte Antonio Di Pietro e Bettino Craxi

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