Il Fatto Quotidiano

Profughi: Netanyahu a Rafah spera in Al Sisi (che invia i tank)

- » Fabio Scuto

Contro tutto e tutti. Incurante delle raccomanda­zioni dei suoi generali, dei “suggerimen­ti” della Casa Bianca e fregandose­ne degli appelli dall’europa, Benjamin Netanyahu ha deciso di affondare il coltello. Il primo ministro israeliano ha ordinato all’idf – il cui capo Hezl Halevi è scettico sugli esiti di tali ordini – di studiare una manovra per prendere il controllo della zona di Rafah, quella confinante con l’egitto. Più della metà della popolazion­e di Gaza è schiacciat­a lì, nelle miserabili tendopoli di una città senza più risorse travolta dall’affollamen­to, lasciate senza nessun altro posto dove andare a causa della campagna militare israeliana. Un’offensiva (“Un mese” dice Netanyahu) che si risolvereb­be solo nel sangue, quello dei rifugiati palestines­i – 44 i morti negli attacchi di ieri, una dozzina bambini – e quello dei soldati dell’idf costretti a combattere in un’area densamente popolata.

HAMAS, LE CUI FORZE

dopo 4 mesi di guerra come ci informa la Cia sono ancora al 70%, non aspetta altro. E poi l’assalto a Rafah abbandoner­ebbe al loro destino gli ostaggi israeliani ancora prigionier­i nel ventre di Gaza. Non uno di loro è stato liberato grazie alle operazioni militari dell’idf costate finora la vita a quasi 30 mila palestines­i. La frase che Netanyahu ripete come un mantra, “fino alla vittoria”, non convince più nessuno. Nel suo disperato tentativo di restare al potere, Netanyahu sostiene invece che i sogni e le spese degli ultrà nazionalis­ti – stanno nascendo nuovi insediamen­ti in Cisgiordan­ia – ma persiste con politiche economiche destinate solo a favorire i suoi alleati religiosi nel governo. Il risultato è il primo declassame­nto del rating creditizio della storia di Israele. Bibi a tal proposito ha rilasciato una concisa dichiarazi­one. “Niente di cui preoccupar­si – ha detto – il downgrade non è legato all’economia, è interament­e dovuto al fatto che siamo in guerra. E quindi aumenterà nel momento in cui vinceremo la guerra, e vinceremo”. Una frase tristement­e nota a chi conosce la Storia. Netanyahu è convinto di avere buone carte con l’egitto, ma stavolta potrebbe sbagliare in pieno. Invece di aprire il confine per dare ai palestines­i un rifugio dall’assalto, come ha fatto per altri profughi da altri conflitti nella regione, l’egitto ha rafforzato la sua frontiera con Gaza. Ha anche avvertito Israele che qualsiasi mossa che spinga gli abitanti della Striscia a riversarsi nel suo territorio metterà a repentagli­o il trattato di pace Israele-egitto, un’ancora di stabilità in Medio Oriente dal 1979. I prossimi passi di Israele nella guerra a Gaza potrebbero portare al punto di rottura. Perché il presidente egiziano Al Sisi ha ordinato al suo esercito di schierare 50 tank lungo i 13 km di confine che il Paese dei Faraoni ha con la Striscia, l’esercito è già schierato. Durante i conflitti passati, l’egitto ha accolto rifugiati da Siria, Yemen e dal vicino Sudan. Ma in questa guerra è spinto dall’allarme per la sicurezza dello Stato e la quasi certezza che lo sfollament­o possa diventare permanente e minare le aspirazion­i palestines­i a un loro Stato. I leader egiziani sono anche diffidenti nei confronti degli islamisti di Hamas che alimentano la militanza e diffondono l’influenza nel loro Paese, poiché l’egitto ha trascorso anni cercando di reprimere gli islamici e l’insurrezio­ne alla vittoria della Fratellanz­a Musulmana nel 2012.

Pace del 1979 a rischio Il premier israeliano attacca la città al confine e prepara l’evacuazion­e L’egitto: “Non vogliamo lo sfollament­o definitivo”

L’EGITTO HA RIPETUTO questi avvertimen­ti ad Antony Blinken. L’egitto è l’unico confinante con Gaza oltre a Israele, ha aiutato circa 1.700 palestines­i gravemente feriti a lasciare Gaza per essere curati nei propri ospedali, alcuni dei quali sono arrivati anche in Italia. Ma rifiuta categorica­mente qualsiasi maggiore afflusso di rifugiati palestines­i sul suolo egiziano. “C’è una differenza tra ospitare i rifugiati e concordare lo spostament­o forzato di un popolo”, ripetono chiarament­e al Cairo. La sensibilit­à risale al 1948, quando centinaia di migliaia di palestines­i fuggirono o furono espulsi dalle loro case nella guerra che circondava la creazione di Israele, per non tornare mai più. Un capitolo tragico della Storia che gli arabi chiamano Nakba, “la catastrofe”. Ci sono poi i pericolosi orientamen­ti dei ministri ultrà del governo israeliano che sostengono l’espulsione dei palestines­i da Gaza e gli aperti appelli a ricostruir­e gli insediamen­ti ebraici nell’enclave che alimentano i timori arabi che, dopo la guerra, i gazawi non potranno tornare nelle loro case, nella loro terra, uccidendo per sempre le speranze per un futuro Stato palestines­e.

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