La Germania torna “il malato d’europa”
Se il nuovo Patto di Stabilità post-covid assomiglia così tanto a quello vecchio, è anche per l’ostinazione tedesca alla rigidità di bilancio. Che però, con la recessione alle porte anche a Berlino, pare ormai grottesca.
Nel 2023 il Pil tedesco è sceso dello 0,3% (dati Destatis). Un calo dovuto ai prezzi elevati, a “condizioni di finanziamento sfavorevoli dovute all’aumento dei tassi d'interesse” e a “un indebolimento della domanda interna ed estera”, secondo il presidente dell’ufficio statistico nazionale Ruth Brand. Come scriveva l’economist già l’estate scorsa, sulla Germania torna ad aleggiare la nomea di “malato d’europa”. Un’etichetta che il Paese si era “guadagnato” anche nel 2003, quando era finito in recessione. Appena due anni dopo, però, sarebbe cominciata “l’epoca d’oro” della cancelliera Angela Merkel. Che ora pare un lontano ricordo.
A Berlino la crescita è praticamente scomparsa da quattro anni: il Pil è solo lo 0,7% più alto rispetto al livello precedente la crisi pandemica. L’anno scorso la produzione industriale (escludendo energia e costruzioni) è calata del 3,7% in termini reali. L’indice della produzione industriale ora si attesta al 92,7: dieci punti in meno rispetto a febbraio 2020 (103,4) e quindici in meno rispetto al picco di novembre 2017 (107,5). Vanno malissimo i settori ad alto impiego di energia (-10,2%), soprattutto l’industria chimica, in cui la produzione segna -10,6%, crollando al livello più basso dal 1995. E stanno arrivando anche i primi danni all’occupazione: Basf, l’azienda chimica più grande dell’intero continente, ha deciso di tagliare 2.600 posti di lavoro. È l’onda lunga della dipendenza dalle fonti di energia russe. Nel 2020 Berlino dipendeva da Mosca per circa il 55% del gas e il 33% del petrolio. Il taglio in fretta e furia delle importazioni dalla Russia ha lasciato il segno.
Di fatto, la Germania ha smesso da tempo di essere la locomotiva d’europa. Ma, nonostante ciò, l’uso della spesa pubblica come volano di crescita resta tabù. Il consenso sulla politica fiscale e sul debito non è cambiato dai tempi di Merkel, anche se ora al potere c’è la variegata coalizione tra socialdemocratici, verdi e liberali, con i cristiano-democratici all’opposizione. Neppure il continuo peggioramento degli indicatori economici ha impresso un cambio di rotta. Anzi, ogni possibile deviazione dalla rigidità è stata stroncata sul nascere dalla Corte costituzionale, che a novembre scorso ha congelato 60 miliardi di spesa pubblica per la transizione verde e il sostegno all’industria. Il motivo? Erano soldi avanzati da un fondo speciale per l’emergenza pandemica, ma secondo i giudici il governo non poteva utilizzarli, a pena di violare la regola costituzionale del “freno al debito”. In parole povere: pareggio di bilancio über alles.
Gli effetti non hanno tardato a farsi sentire. Di fronte al taglio dei fondi green, a gennaio Meyer Burger, il maggior produttore di pannelli solari in Germania, ha minacciato di chiudere i battenti e delocalizzare negli Stati Uniti, mettendo in allarme tutto il mondo politico. E mentre l’élite tedesca resta in balia delle paranoie contabili, l’agenzia finanziaria Bloomberg avverte: “I giorni della Germania come superpotenza industriale potrebbero essere giunti al termine”.