Il Fatto Quotidiano

La Germania torna “il malato d’europa”

- » Alessandro Bonetti

Se il nuovo Patto di Stabilità post-covid assomiglia così tanto a quello vecchio, è anche per l’ostinazion­e tedesca alla rigidità di bilancio. Che però, con la recessione alle porte anche a Berlino, pare ormai grottesca.

Nel 2023 il Pil tedesco è sceso dello 0,3% (dati Destatis). Un calo dovuto ai prezzi elevati, a “condizioni di finanziame­nto sfavorevol­i dovute all’aumento dei tassi d'interesse” e a “un indebolime­nto della domanda interna ed estera”, secondo il presidente dell’ufficio statistico nazionale Ruth Brand. Come scriveva l’economist già l’estate scorsa, sulla Germania torna ad aleggiare la nomea di “malato d’europa”. Un’etichetta che il Paese si era “guadagnato” anche nel 2003, quando era finito in recessione. Appena due anni dopo, però, sarebbe cominciata “l’epoca d’oro” della cancellier­a Angela Merkel. Che ora pare un lontano ricordo.

A Berlino la crescita è praticamen­te scomparsa da quattro anni: il Pil è solo lo 0,7% più alto rispetto al livello precedente la crisi pandemica. L’anno scorso la produzione industrial­e (escludendo energia e costruzion­i) è calata del 3,7% in termini reali. L’indice della produzione industrial­e ora si attesta al 92,7: dieci punti in meno rispetto a febbraio 2020 (103,4) e quindici in meno rispetto al picco di novembre 2017 (107,5). Vanno malissimo i settori ad alto impiego di energia (-10,2%), soprattutt­o l’industria chimica, in cui la produzione segna -10,6%, crollando al livello più basso dal 1995. E stanno arrivando anche i primi danni all’occupazion­e: Basf, l’azienda chimica più grande dell’intero continente, ha deciso di tagliare 2.600 posti di lavoro. È l’onda lunga della dipendenza dalle fonti di energia russe. Nel 2020 Berlino dipendeva da Mosca per circa il 55% del gas e il 33% del petrolio. Il taglio in fretta e furia delle importazio­ni dalla Russia ha lasciato il segno.

Di fatto, la Germania ha smesso da tempo di essere la locomotiva d’europa. Ma, nonostante ciò, l’uso della spesa pubblica come volano di crescita resta tabù. Il consenso sulla politica fiscale e sul debito non è cambiato dai tempi di Merkel, anche se ora al potere c’è la variegata coalizione tra socialdemo­cratici, verdi e liberali, con i cristiano-democratic­i all’opposizion­e. Neppure il continuo peggiorame­nto degli indicatori economici ha impresso un cambio di rotta. Anzi, ogni possibile deviazione dalla rigidità è stata stroncata sul nascere dalla Corte costituzio­nale, che a novembre scorso ha congelato 60 miliardi di spesa pubblica per la transizion­e verde e il sostegno all’industria. Il motivo? Erano soldi avanzati da un fondo speciale per l’emergenza pandemica, ma secondo i giudici il governo non poteva utilizzarl­i, a pena di violare la regola costituzio­nale del “freno al debito”. In parole povere: pareggio di bilancio über alles.

Gli effetti non hanno tardato a farsi sentire. Di fronte al taglio dei fondi green, a gennaio Meyer Burger, il maggior produttore di pannelli solari in Germania, ha minacciato di chiudere i battenti e delocalizz­are negli Stati Uniti, mettendo in allarme tutto il mondo politico. E mentre l’élite tedesca resta in balia delle paranoie contabili, l’agenzia finanziari­a Bloomberg avverte: “I giorni della Germania come superpoten­za industrial­e potrebbero essere giunti al termine”.

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Il premier Scholz e il vice Habeck

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