L’addio commosso di Ama e la successione impossibile
Edizione dei record, share mai così alto. Un dono avvelenato per chi verrà dopo: sarà impossibile superare gli ascolti. Un bilancio dei cinque anni targati “Amarello”
Addio Sanremo bella, gli Amarello salutano il Festival dopo il piano quinquennale che ha rifondato il Natale della tivù italiana. La domanda dunque – restiamo dalle parti della rivoluzione d’ottobre – è Che fare? Dopo la percentuale bulgara di ascolti nella serata delle cover (67% di share, il dato più alto da quando esiste la rilevazione Auditel, 1987) chiunque prenderà in mano il carrozzone del Festival porterà sulle spalle una croce pesantissima: après Amà le déluge .
L’EREDITÀ di Amadeus e Fiorello, che ieri hanno salutato l’ariston non senza commozione, è praticamente irricevibile. Il Festival è una bolla che in questi anni si è gonfiata a dismisura ed è quasi fatale che il suo destino sia scoppiare. Si vede plasticamente anche nelle strade di Sanremo: ormai non si passa più da nessuna parte, nemmeno con il pass stampa, ci sono posti di blocco ovunque, cani antidroga, varchi e metal detector anche per andare in bagno. Nemmeno al G7. E qui sta il paradosso di Sanremo: è il nulla con tutto e tutti (perché tutti vogliono esserci) intorno. La cittadina decadente appoggialegge ta sul mare come una sirena invecchiata, ogni anno si mette il vestito della festa, e ogni anno ha più cerone che lustrini.
Il dono che Amadeus ha fatto a Mamma Rai, resuscitando una kermesse moribonda, è in qualche modo avvelenato: anche la raccolta pubblicitaria (quest’anno attorno ai 56 milioni) dovrà misurarsi con l’incertezza della successione. Con questi numeri, nemmeno Amadeus potrebbe riuscire nell’impresa di battere se stesso, come ha sempre fatto finora. Lo dice anche lui: “Sarebbe impossibile”. Motivo in più per chiuderla, stavolta davvero, qui. Di sicuro il giochino dell’allungamento extra-large delle serate finisce con ieri: puntata eterna, un sequestro di persona non proprio rispettoso del pubblico, previsione di chiusura alle 2:40. Mentre Loredana Bertè conquista il premio della critica intitolato alla sorella Mia Martini (e Angelina Mango quello della Sala stampa radio tv), il vincitore è appeso al Sanremellum, una elettorale più bislacca di quelle vere (alla top five si azzera tutto: i grandi elettori sono stampa, radio e televoto, ma in realtà sono decisive le preferenze da casa). Allori a parte, restano gli interrogativi. Per esempio se i buoni numeri dell’audience siano l’unico metro di giudizio. Naturalmente no, la formula della maratona canora con 30 brani in gara – altro record, non positivo – è un plaid che copre la mancanza di coraggio e idee. La musica che gira intorno, i ragazzini davanti alla tv, i Maneskin, il rap, la tribù che balla, le inevitabili polemiche, l’inizio della fine di Chiara Ferragni: tutto questo resterà. Basta?
SI POTREBBE obiettare che dopotutto è una rassegna musicale, ma è una mezza verità: o Sanremo è un evento televisivo o non lo è. Da vedere, in particolare quest’anno, non c’era niente. Certo i co-co di Amadeus (il precariato vige anche all’ariston) se la sono cavata bene, senza però un guizzo o una sorpresa: da Mengoni a Giorgia (due cantanti prestati alla conduzione) passando per la più amata dagli italiani, Lorella Cuccarini, fino a Teresa Mannino, autrice dell’unico pezzo comico. Certo, Fiorello ci ha strappato qualche sorriso, ma la sensazione è che sia stato tutto, inesorabilmente e consapevolmente, anestetizzato: da una Rai sempre in balia delle lotte di potere, dalla politica che vuole la politica fuori dall’ariston (salvo entrarci sistematicamente, perché la vetrina è irresistibile), dal politicamente corretto dell’epoca in cui tutti si offendono, pure per conto terzi. Certo, stanotte si è chiuso un ciclo: è stato e mica per Russell Crowe.
SORELLE PREMIO DELLA CRITICA “MIA MARTINI” ALLA BERTÈ