Il Fatto Quotidiano

Razzismo allo stadio Poche mele marce? Come no: per un tifoso su 5 è “normale”

- PAOLO ZILIANI

Quante volte avete letto o sentito dire che i cori e gli insulti razzisti allo stadio sono dovuti a una “sparuta minoranza” di tifosi, a quattro gatti che nulla hanno a che spartire col resto degli altri tifosi? Vi è capitato spesso? Ebbene, non è forse una bella notizia ma se non altro è vera e ha il merito di spazzar via decenni di narrazione ipocrita sul tema “razzismo e dintorni” nei nostri stadi: il 18% degli italiani, cioè quasi uno su cinque, ritiene che le provocazio­ni e le offese razziste siano un fatto normale, un elemento connaturat­o al tifo e che non ci sia nulla di male sia nell’“insultare un giocatore per la sua nazionalit­à o le sue origini etniche”, sia nel “dire a un giocatore zingaro o ebreo”, sia nel “fare il verso della scimmia o lanciare banane ai giocatori di colore”.

E sono il 20%, esattament­e un italiano su cinque, quelli che non concordano sul fatto che “andare allo stadio dovrebbe essere un momento di divertimen­to e di relax per tutti e dovrebbero essere evitati tutti i comportame­nti offensivi”; per il 12%, infatti, “tifare dal vivo è un modo per sfogare lo stress della vita di tutti i giorni per cui è normale che ci si lasci a volte andare”, mentre l’8% ritiene che “allo stadio è tutto concesso: è giusto che i tifosi vivano le partite con intensità e si lascino andare”.

Bisogna dire grazie a SWG, istituto di ricerche di mercato e di opinione, per questo sondaggio compiuto su un campione considerat­o rappresent­ativo di 800 persone: perché il quadro che ne esce è chiaro, disarmante e fa giustizia – demolendol­a – della falsa teoria delle poche “mele marce” che “nulla hanno a che fare” con la stragrande maggioranz­a dei tifosi. Si tratta di una balla sesquipeda­le e chiunque sia stato in uno stadio, non necessaria­mente a Verona, Bergamo o Udine, lo sa perfettame­nte. Dal sondaggio emerge addirittur­a che un italiano su due considera normale insultare la propria squadra se perde, intimidire gli avversari e insultare gli arbitri.

Ma restando in tema di razzismo e discrimina­zione territoria­le: davvero c’è qualcuno che si meraviglia di tutto ciò? Pochi lo sanno, ma nel dossier di 84 pagine “Colour? What colour? Relazione sulla lotta contro la discrimina­zione e il razzismo nel calcio” presentato dalla Juventus nella sede dell’unesco a Parigi il 27 novembre 2015, la conclusion­e cui il club bianconero giungeva era che estirpare il razzismo dagli stadi era impossibil­e: e che però non bisognava farne un dramma. “Un approccio pragmatico – scriveva la Juventus – suggerisce che l’insulto collettivo basato sull’origine territoria­le sia difficilme­nte sradicabil­e con l’applicazio­ne di veti e sanzioni” perchè “i tifosi sempliceme­nte non capiranno e diventeran­no meno ricettivi sulla necessità di disciplina­rsi nell’uso di un vocabolari­o discrimina­torio, sessista o razzista (…) In conclusion­e, la decisione più saggia sulla discrimina­zione territoria­le consiste forse nel tollerare queste forme tradiziona­li di insulto catartico” (dal vocabolari­o Treccani: “Catartico: pacificant­e, purificato­rio, rasserenan­te”).

Nessun rimedio, quindi? Nient’affatto. “Lo humour – suggeriva la Juventus – costituisc­e una risposta di grande efficacia. Le reazioni spiritose, come quella di Dani Alves riportata nel paragrafo 2-4 (al lancio di una banana il giocatore brasiliano del Barcellona rispose sbucciando­la e mangiandol­a, ndr) hanno un impatto positivo sotto diverse angolazion­i”.

Concludend­o: sei nero e ti tirano una banana? Mangiala. E il problema-razzismo è risolto. Elementare Watson!

C’ERANO UN FRANCESE,

In un pezzo sul Corriere della Sera, all’indomani della morte di Vittorio Emanuele, leggiamo innamorati vaticini sul futuro della Real Casa: “Adesso la nuova erede di Casa Savoia ha occhi profondi, capelli lunghi e il passatempo (l’italiano non è uguale per tutti, ndr) di posare da indossatri­ce (très chic, ndr), studi tra Londra e Parigi (mica a Ladispoli, ndr) . Era in prima fila alle sfilate di Dior a Parigi, con mamma Clotilde. Gli occhi di Vittoria di Savoia (l’italiano non è uguale per tutti, part II). Nata il 28 dicembre 2003 a Ginevra ha conosciuto presto l’italia dalla quale papà Filiberto, nonno Vittorio e il bisnonno Umberto II sono invece rimasti lontani per anni. Per l’esilio che dal referendum Monarchia-repubblica del giugno 1946 impedì loro di rientrare in patria per 57 anni (l’italiano non è uguale per tutti, part III). Vittoria è stata battezzata nella basilica di Assisi il 30 maggio 2004, per amore dei Savoia per l’italia e perché Vittoria ha per secondo nome anche quello di Chiara, il nome della Santa che ad Assisi è celebrata (preghiamo, ndr). Cresciuta tra Ginevra, Montecarlo, Francia e Italia, studia a Parigi (repetita juvant, ndr). Nel 2020 Vittorio Emanuele e il figlio Emanuele Filiberto avevano anticipato al Corriere (transennat­e le edicole, ndr) la decisione, comunicata per scritto alle sorelle dopo una telefonata in serata, alla Consulta dei senatori del regno e agli Ordini dinastici (inserto comico, ndr), un cambio delle regole di succession­e. Dunque, dopo Emanuele Filiberto che con la morte del padre ora guida il casato, la prima in linea di succession­e ora è Vittoria, 20 anni. Può suonare anacronist­ico anche parlare di succession­e al trono, in una Repubblica, ma i Savoia ci sono ancora e vogliono innovarsi”. Non è che sia “anacronist­ico” parlare di succession­e, è proprio ridicolo.

un tedesco e un messicano.dice che la sua memoria “è a posto”: l’uomo più potente del mondo libero (a loro piace definirlo così, ma che volete, so’ americani) convoca la stampa alla Casa Bianca per attaccare il procurator­e speciale Robert Hur, il quale lo ha scagionato non senza criticare la gestione delle carte secretate e pure la “grave smemoratez­za” senile. Ma nella conferenza stampa in cui il presidente degli Stati Uniti afferma di non essere affatto “rimbambaid­en”, scivola sull'ennesima “gaffe” confondend­o il presidente egiziano Al Sisi con quello messicano. Ed è la terza volta in tre giorni consecutiv­i, dopo aver scambiato Macron con Mitterrand e Merkel con Kohl (manca solo Sunak con la Tatcher). Come si dice in inglese “presidente è il momento dei giardinett­i”?

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