Stellantis e governo: la guerra senza modelli e un vero piano
stabilimento che fronteggia la collina, dove un tempo abitava Gianni Agnelli, gli scenari offrono solo segni negativi. Diciassette anni di cassa integrazione, altre sette settimane a partire da oggi, il modello della 500 elettrica che è crollato nelle vendite per mancanza di incentivi e la linea Maserati che dirà addio, a marzo, al suv Levante. Qualcosa che oggi vale ancora 25 vetture assemblate ogni giorno, che scenderanno appena a 8 solo grazie a ciò che resterà della produzione del Tridente, tra Ghibli, Quattroporte, Granturismo e Gran Cabrio. E poi l’occupazione che è calata a 12 mila addetti, mentre sono già più di 1.500 gli impiegati, i tecnici e gli ingegneri che hanno lasciato l’azienda per dimissioni spesso incentivate (con offerte di quasi 130mila euro) e senza essere stati sostituiti. Un impoverimento drastico della ricerca e delle competenze dei cosiddetti “enti centrali” ospitati nella palazzina uffici di Mirafiori, dove il “saper pensare e fabbricare automobili” è ancora un patrimonio italiano.
D’altra parte, nel 2003 era stato proprio Umberto Agnelli, a pochi mesi dalla scomparsa di suo fratello Gianni, ad ammettere durante un convegno al Lingotto, e di fronte alle contestazioni della Fiom, che “se si scende sotto le 200mila auto prodotte all’anno, a Mirafiori non vale neppure la pena di accendere la luce”.
Anche gli scenari internazionali di Stellantis, però, trasmettono sensazioni negative. La Spagna, il Paese emergente nell’automotive europeo, non ha un produttore, ma ne ha già attirati 5 dal resto del mondo (compreso il gruppo guidato da Tavares) e che adesso sembra trascinare attenzioni che spingono sempre di più l’italia in un cono d’ombra. ACC, la società che guarda allo sviluppo elettrico (Automotive Cells Company), soprattutto sul fronte delle batterie, oggi in mani asiatiche (Cina e Corea) per ricerca e produzione, e che nasce da un accordo tra Stellantis, Mercedes Benz e la francese Total, pensa proprio di trovare in terrà iberica la collocazione per una nuova gigafactory. C’entra anche l’impegno del governo spagnolo: 1,5 miliardi di aiuti destinati al settore elettrico. Un pezzo importante di un piano di investimenti di ACC per 4,4 miliardi di euro in Europa, da alimentare con prestiti soprattutto da istituti bancari francesi, come Bnp Paribas e Bpifrance.
Quella della gigafactory è la questione centrale per lo sviluppo di un settore che va verso il motore elettrico: senza una produzione locale di batterie tutto si complica, sia per riconvertire ciò che già esiste, come in Italia gli ex stabilimenti Fiat, sia per attirare nuovi produttori. Il programma di Stellantis è già chiaro: concludere la realizzazione della gigafactory in Francia, poi quella in Germania, definire l’eventuale nuovo investimento in Spagna e, solo allora, dare il via a quella italiana, prevista a Termoli con finanziamenti pubblici per 600 milioni e che da Parigi continuano a ripetere di voler attivare entro il 2026. “Dall’azienda mi aspetto la Gigafactory anche in Italia”, ha detto Urso nei giorni scorsi, come se non fosse un dato acquisito.
SOLO NELL’ULTIMO
anno la Panda elettrica è volata in Serbia, la 600 elettrica in Polonia, la Topolino in Marocco, mentre Stellantis preme per far delocalizzare anche l’indotto. Pomigliano ha finito la Cig dopo 12 anni ma con la fine della Panda a benzina, dal 2026, non ha prospettive (quella elettrica si farà in Serbia). Altrove si va a singhiozzo. Secondo S&P, la produzione del gruppo in Italia (nel 2023 di 751 mila unità, tra auto e veicoli commerciali) scenderà del 12% quest’anno.