L’ONLUS-BLUFF DI BONGIO
I pm confermano: “L’associazione non era in grado di evadere le richieste delle vittime” La senatrice: “Valutiamo altre iniziative”
La “Fondazione Doppia Difesa”, creata da Giulia Bongiorno e Michelle Hunzinker per aiutare le donne in difficoltà, era difficilissima da contattare al telefono. E le mail delle vittime restavano spesso senza risposta. Dopo l’inchiesta del Fa t t o , pubblicata nel 2018, lo conferma la Procura di Cagliari che ha chiesto e ottenuto l’archiviazione del procedimento contro Selvaggia Lucarelli e il direttore Marco Travaglio, dopo la querela di Bongiorno e Hunzinker, che avevano definito l’articolo “costellato di falsità e chiaramente denigratorio”. L’inchiesta di Selvaggia Lucarelli era invece nutrita di “verifiche il cui esito era stato correttamente riportato”. Tutte le considerazioni pubblicate sul ‘ Fatto Quotidiano’ e relative alla scarsa operatività della Fondazione creata nel 2007 per supportare le donne vittime di violenza di genere e di stalking, erano da ricomprendere nel diritto di cronaca e di critica. “Le circostanze di fatto riportate nell’articolo dalla Lucarelli hanno trovato riscontro, sicché non appare violato il citato canone di verità”, si legge nel decreto di archiviazione.
Insomma, era vero che la Fondazione non funzionava benissimo, e molte richieste di aiuto avevano difficoltà a essere accolte fino a cadere nel vuoto, come si legge nella quindicina di pagine con cui il Gip di Cagliari Michele Contini accoglie integralmente la richiesta di archiviazione del pm Nicola Giua Marassi. Non fu diffamazione a mezzo stampa, anzi, fu espressione di “giornalismo di inchiesta inteso come ‘espressione più alta e nobile dell’attività di informazione’”.
Nei giorni che precedettero l’articolo pubblicato il 25 gennaio 2018, Lucarelli – su input di una fonte riservata, una signora che le segnalò alcune anomalie – studiò il sito internet della Fondazione, ne esaminò le attività di promozione sui social network, visionò un sacco di lamentele nei commenti. E per avere qualche spiegazione, e cercare riscontri o smentite, provò a mettersi in contatto con qualche esponente della Fondazione “sia per via telefonica sia per email, in entrambi i casi con esito negativo”. Arrivò a parlare con un avvocato collaboratrice della Fondazione, per la verità. Che però, invece di fornirle qualche risposta alla domanda “se avesse fornito assistenza a qualche persona segnatale dalla Fondazione”, preferì non rispondere nell’immediato “promettendo di ricontattarla dopo aver conferito con la querelante Bongiorno”. Quel contatto rimase senza sviluppi, Lucarelli non fu più richiamata. Né prima, né dopo la pubblicazione dell’articolo.
Ma ci è voluta una procura che indagasse, per ottenere giustizia. Quella di Roma, competente in una prima fase del procedimento, aveva liquidato il tutto con una richiesta di decreto penale di condanna (accolta dal Gip). È un provvedimento emesso senza contraddittorio, sul presupposto della evidenza della colpevolezza dell’indagato, quando il pm ritiene che sia sufficiente una pena pecuniaria per chiudere la questione. Lucarelli e Travaglio, difesi dall’avvocato Caterina Malavenda, si sono opposti, dando avvio al giudizio immediato. Salvo poi scoprire, durante la prima udienza, che il giorno in cui uscì il pezzo a firma Lucarelli, la prima copia del Fatto era stata stampata a Cagliari. Di qui il trasferimento del fascicolo per competenza alla procura sarda, che ha ricominciato da capo. Un nuovo pm ha letto le carte, la memoria dell’avvocato Malavenda, ha delegato qualche accertamento alla polizia postale. In sostanza ha aperto l’unica indagine e ha trovato le prove dell’innocenza di Lucarelli, chiedendone l’archiviazione.
La polizia postale, tra le varie attività investigative, ha anche acquisito i tabulati telefonici di Selvaggia Lucarelli con le tracce delle sue telefonate ai numeri della “Fondazione Doppia Difesa”. Ma, soprattutto, ha raccolto le dichiarazioni di avvocati e collaboratori della Fondazione. L’audizione dell’ex segretaria generale Maria Giuseppina Laganà, si legge negli atti, ha consentito di verificare che “la struttura era composta da una segretaria e, a rotazione, da personale con competenza legale, che la Fondazione disponeva di due linee telefoniche e che alla ricezione delle telefonate era incaricata la segretaria e che, a volte, poteva accadere che altre persone rispondessero, che sempre la segretaria era incaricata di gestire il flusso delle email; che la Fondazione privilegiava i contatti via email; che, in ragione della struttura, non era possibile evadere le richieste quotidianamente; che era capitato di ricevere solleciti da parte delle utenti per essere ricontattate”.
Pur riferendosi a qualche anno prima, il Gip ritiene che riscontri quanto detto dalle altre persone sentite: “Confermano senz’altro l’operatività della Fondazione ma, dall’altro, evidenziano una struttura forse insufficiente a gestire la mole enorme di richieste di assistenza pervenute sia per telefono che per email”.
Quindi il riferimento “agli inutili spot” sul quale Bongiorno e Hunziker avevano puntato alcune cartucce della querela, va letto così: “Non è da collegare a una presunta volontà delle querelanti di strumentalizzare l’attività della Fondazione a fini di pubblicità personale (peraltro, non necessaria data la loro ampia e meritata popolarità) ma all’attività di promozione della stessa Fondazione a fronte della quale però, secondo la prospettazione della Lucarelli, non vi sarebbe stata una tempestiva risposta alle richieste di contatto delle utenti”. Secondo pm e gip non c’è quindi probabilità che Bongiorno e Hunziker vincano il processo. Contattata dal Fatto, Bongiorno commenta: “Stiamo valutando altre iniziative giudiziarie rispetto a questa vicenda”.