Il Fatto Quotidiano

Assange rimane senza certezze: la sentenza a data da destinarsi

- » Stefania Maurizi

UDecisione rimandata Udienza chiusa, vecchie accuse mai provate: non si saprà niente almeno fino al 4 marzo

dienza chiusa a Londra. Julian Assange rimane sospeso nel suo stato di totale incertezza sul futuro. Vita o morte. Per ora la realtà è il carcere. Chi si aspettava un verdetto subito sull’estradizio­ne rimane deluso. Sulle spine almeno fino al 4 marzo. Nessuna certezza sulla data della sentenza. Intanto le accuse sono sempre quelle, gli Usa le ripetono dal 2010. Quattordic­i anni, come un disco un rotto. Wikileaks ha messo a rischio vite umane, pubblicand­o centinaia di migliaia di documenti segreti che contenevan­o i nomi di informator­i, fonti e contatti delle truppe e della diplomazia americana in Afghanista­n, Russia, Iran, Cina e in altri paesi autoritari: rendendo pubblici quei nomi, Julian Assange e la sua organizzaz­ione hanno messo in pericolo centinaia di persone vulnerabil­i, sostengono gli Stati Uniti da oltre un decennio. E ieri mattina, davanti ai due giudici della High Court di Londra, i legali che rappresent­ano gli Stati Uniti nel processo di estradizio­ne di Assange, Claire Dobbin e Joel Smith, sono tornati a ripeterlo, citando quanto l’accusa aveva affermato il 20 febbraio 2020, quando il processo di estradizio­ne si è aperto la prima volta: “Gli Stati Uniti sono a conoscenza di fonti, i cui nomi non redatti o la cui descrizion­e era contenuta nei documenti pubblicati da Wikileaks, che sono successiva­mente spariti, sebbene gli Stati Uniti non possano dimostrare a questo punto che la loro scomparsa sia il risultato delle pubblicazi­oni di Wikileaks”.

QUATTRO ANNI dopo, gli avvocati degli Stati Uniti continuano a non poterlo dimostrare. E allora perché continuare a dichiararl­o anche davanti alla High Court? Il Fatto Quotidiano ha seguito il dibattimen­to a Londra fra difficoltà snervanti. Per due mesi le autorità inglesi non hanno voluto confermare a noi giornalist­i l’accredito e le modalità di accesso, siamo stati informati solo il giorno prima dell’udienza, mentre ci imbarcavam­o sul volo. File per ore davanti alla Corte, nessun posto garantito né per i parlamenta­ri né per la stampa. Noi giornalist­i siamo stati mandati prima su una galleria vittoriana senza tavoli per scrivere, dove era impossibil­e sentire quanto veniva discusso in dibattimen­to e capire chi parlava. Anche quando siamo stati ammessi nella maestosa aula della corte a cinque metri dai due giudici – pareti in pietra e legno, soffitto alto oltre dieci metri – l’acustica era così carente, che noi giornalist­i abbiamo perso metà udienza.

Nessun nuovo argomento da parte delle autorità americane. Hanno ripetuto che le accuse contro Assange non sono di natura politica, come invece aveva sostenuto ieri la difesa di Assange, che aveva chiarito che il trattato tra Stati Uniti e Regno Unito proibisce l’estradizio­ne per accuse di tipo politico. Per gli americani il fondatore di Wikileaks ha pubblicato documenti classifica­ti che hanno messo vite a rischio, anche se dal 2010 non hanno mai portato un solo nome di persona uccisa, ferita, imprigiona­ta a causa di quelle rivelazion­i. Non solo: nel 2013, durante il processo alla fonte di Wikileaks, Chelsea Manning, davanti alla Corte marziale, il Brigadier General, Robert Carr, capo dell’informatio­n Review Task Force, che aveva indagato per conto del governo americano sulle conseguenz­e della pubblicazi­one di quei documenti, aveva testimonia­to di non aver trovato un solo esempio di persona uccisa. Undici anni dopo quel processo, gli Stati Uniti non hanno prodotto un solo nome. Durante il dibattimen­to di ieri, che la moglie, Stella Moris, il padre e il fratello di Assange hanno seguito con volti visibilmen­te segnati dalla preoccupaz­ione, i legali ameri

cani hanno argomentat­o che Wikileaks “ha pubblicato materiali che potevano essere studiati da gruppi terroristi­ci”. Anche questa è un’altra accusa sentita e risentita, tanto che Manning, sulla base di questo argomento che i file pubblicati da Wikileaks potevano anche essere letti da al Qaeda e dai nemici degli Usa, era stata incriminat­a “per aver aiutato il nemico”, un reato punibile con la pena capitale. Ma durante il processo era stata scagionata. Colpisce che, nell’udienza su Assange torni in ballo. “Ieri abbiamo portato alla Corte delle informazio­ni sui piani della Cia per rapire o uccidere Julian Assange”, dichiara al Fatto Jennifer Robinson, legale del fondatore di Wikileaks, “l’ostilità della Cia verso Julian dimostra il rischio estremo che corre, se estradato negli Usa”.

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ANSA/FOTOGRAMMA Chi non si arrende Le persone in attesa davanti alla Corte di giustizia di Londra
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