Il Fatto Quotidiano

Ma la sai l’ultima? I meme hanno ucciso le barzellett­e!

- » Alessandro Zaccuri * * Alessandro Zaccuri è direttore della comunicazi­one dell’università Cattolica del Sacro Cuore. Collabora al quotidiano “Avvenire”

Le barzellett­e non fanno più ridere. Se non ci credete, provate a raccontarn­e una in pubblico. Noterete espression­i di imbarazzo, sguardi che si chinano sugli smartphone, dita che scorrono alla ricerca di qualcosa che sia davvero divertente: un meme, un trend, una vignetta, magari – alla peggio – un’altra barzellett­a, ma illustrata e animata. L’importante è abbreviare i tempi di attesa, arrivare alla battuta il prima possibile. Anche quando ci va di ridere, non abbiamo più tempo da perdere.

Certo, nel mondo accade di peggio, però sull’obsolescen­za della barzellett­a qualche riflession­e è bene spenderla. Erede della “facezia” rinascimen­tale e anche, per alcuni aspetti, della fiaba esopica, il genere ha caratteriz­zato una buona parte del Novecento. In ipotesi, si potrebbe suggerire un arco che dal saggio di Sigmund Freud sul Motto di spirito (1905) si estenda fino ad Applausi a scena vuota (2014), il romanzo nel quale l’israeliano David Grossman immagina un disperato tentativo di fuga dal dolore attraverso le barzellett­e. Non è irrilevant­e il fatto che sia Freud sia Grossman si collochino nel contesto della cultura ebraica: l’apologo rabbinico è un’altra delle fonti alle quali il repertorio del joke ha lungamente attinto.

Nessuna nostalgia, sia chiaro. E nessun rimpianto. Per un secolo abbondante le barzellett­e hanno tenuto la scena, riempiendo i teatri di varietà e mettendo in sicurezza i palinsesti televisivi. Con una raccolta di barzellett­e ci potevi sfornare un best-seller, a patto che a fare da garante ci fosse un personaggi­o di richiamo come il Francesco Totti dei tempi d’oro. Anche in politica le barzellett­e rivendicav­ano una funzione più che legittima: in Unione Sovietica davano voce al dissenso, nell’italia di Silvio Berlusconi sono state un non marginale strumento di consenso. Un intellettu­ale rigoroso come Umberto Eco si deliziava nel darne un’interpreta­zione semiotica e ammetteva – a denti stretti, ma lo ammetteva – che la passione per le barzellett­e era uno dei pochi elementi che lo accomunava­no al Cavaliere.

Era una questione generazion­ale e non ce ne rendevamo conto. O forse no, forse il declino dei baby boomer c’entra fino a un certo punto e quel che più conta è l’avanzata delle tecnologie, per cui anche la comicità, come qualsiasi altra cosa, è ormai entrata nell’epoca della sua riproducib­ilità tecnica. Da qui il meme, appunto, da qui il trend e la clip tagliuzzat­a a beneficio dei social. Espression­e dignitosa delle arti applicate, la barzellett­a non sfigurava nel maestoso museo del racconto universale. Non poteva ambire ai saloni occupati dai poemi epici e dai romanzi ottocentes­chi, però qualche teca in un’ala laterale se la meritava eccome. Di questo, in definitiva, si trattava: di un piccolo congegno narrativo che richiedeva la giusta combinazio­ne di tradizione e talento individual­e. Modulazion­e della voce, mimica, rispetto dei tempi erano requisiti indispensa­bili, in assenza dei quali la barzellett­a collassava su se stessa. Molti ricorderan­no con angoscia il momento in cui il narratore perdeva il filo, diceva no aspetta e poi, sconsolato, ammetteva di aver dimenticat­o il finale. Perché la forza della barzellett­a stava tutta lì, in quella che si chiamerebb­e la pointe, vale a dire la clausola, il sigillo, l’agudeza che piombava come un colpo di scena e cambiava il senso della storiella.

In Rete, invece, più di pointe è questione di pu n ct u m , la componente ineffabile eppure riconoscib­ilissima che Roland Barthes indicava come costitutiv­a dell’immagine, e dell’immagine fotografic­a in particolar­e. Su questo si fonda il meme: su un fotogramma ben trovato, al quale si combina una battuta che potrà anche variare, ma in fin dei conti sempre quella rimane. In modo del tutto speculare, il trend è la ripetizion­e di un frammento vocale al quale l’influencer di turno presta volto e fisicità. L’inventiva è ridotta al minimo, l’abilità sta nel replicare con precisione un modello precostitu­ito. Essere tutti originali allo stesso modo è, del resto, l’articolo unico al quale si attiene buona parte della comunicazi­one digitale. Per essere sé stessi bisogna essere in grado di somigliare a qualcun altro, meglio se con una buona base musicale.

Non che fosse una meraviglia, la belle époque delle barzellett­e. La grossolani­tà era in agguato, il pregiudizi­o serpeggiav­a e, quando non serpeggiav­a, imperava. Sia pure in maniera talvolta degradata, era comunque il racconto a rivendicar­e la sua capacità di fascinazio­ne. Adesso si corre subito al finale (“guarda fino in fondo” è l’appello che accompagna molti reel, la cui durata raramente supera il minuto), dopo di che si è liberi di passare ad altro. D’altro canto, anche le barzellett­e si potevano raccontare a raffica, a costo di stordire il pubblico. Non bisogna nutrire rimpianti, ripetiamol­o, non si può indulgere alla nostalgia. Ma di sicuro è difficile abituarsi all’idea che il vecchio intercalar­e di “la sai l’ultima” vada inteso alla lettera. Che l’ultima barzellett­a sia già stata raccontata, insomma, e che per ridere ci si debba arrangiare con il bricolage dell’eterno ritorno.

Maledetta fretta Arrivare alla battuta il prima possibile. Anche se ci va di ridere, non abbiamo più tempo da perdere

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 ?? FOTO ANSA ?? Mattatori e non Ai tempi dei social le barzellett­e fanno ancora ridere? Sotto, il grande Gigi Proietti
FOTO ANSA Mattatori e non Ai tempi dei social le barzellett­e fanno ancora ridere? Sotto, il grande Gigi Proietti

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