Il Fatto Quotidiano

. MATTEOTTI È MORTO. .E VA FATTO SPARIRE.

L’AUTO E IL CORPO La Lancia adoperata per il rapimento fu nascosta nel garage di un giornalist­a. Dumini ordinò di spogliare il cadavere Gli tolsero il passaporto e lo seppelliro­no a mezzo metro di profondità

- » CLAUDIO FRACASSI

Ora il gruppo dei rapitori al servizio di Mussolini, in fuga nella Lancia Lambda nera piena di sangue, aveva a che fare con un cadavere. Matteotti era stato ucciso in macchina con una “arma da punta e da taglio”, come fu poi stabilito dalla prima autopsia.

Ma naturalmen­te il cadavere – questo era l’intendimen­to unanime degli assassini membri della cosiddetta “Ceka” mussolinia­na – non doveva essere né ritrovato né consegnato alla giustizia e agli anatomopat­ologi.

Chi aveva vibrato la coltellata decisiva alla gola di Matteotti? In seguito, scoperti e – come vedremo – sottoposti a una inevitabil­e indagine giudiziari­a per l’omicidio, gli assassini della banda “cekista” di Mussolini si difesero con un penoso scaricabar­ile. Il capo Amerigo Dumini sostenne addirittur­a che Matteotti, immobilizz­ato a forza nella macchina, aveva avuto un imprevisto e immotivato “sbocco di sangue” (interrogat­orio del 24 ottobre 1924); ma i medici liquidaron­o la ridicola tesi. Molti anni dopo, lo stesso Dumini dichiarò a propria difesa di aver avuto una (poco credibile) “mezza confession­e” da Albino Volpi: Matteotti “con un calcio aveva colpito ai testicoli il Volpi e questi allora, accecato dal dolore acutissimo, aveva ucciso con una pugnalata il Matteotti perforando­gli un polmone” (Fondo M., 4 aprile 1947).

Una cosa colpì alcuni di coloro – medici e giudici – che nel nascente clima mussolinia­no ebbero poi lo spiacevole compito di esaminare le imbarazzan­ti bugie degli assassini di Matteotti: l’uccisione affidata all’opera della Ceka era “avvenuta troppo presto” rispetto a quanto programmat­o dal vertice fascista. Spiegò quel piano anni dopo Dumini, il capo della squadra: “Necessario era nel modo più assoluto mettere il Matteotti nelle condizioni di non più parlare, di scomparire anzi per sempre. Non doversi trovare più né vivo né morto”. Adesso l’ordine di Marinelli (portavoce del capo fascista e controllor­e della cassa della Ceka) era quello di “bruciare il cadavere di Matteotti e di ritirare tutto quanto egli aveva indosso...”. A questo scopo, la Lancia nera si fermò in piena campagna per “esplorare i dintorni ”e“vedere se era possibile eseguire l’ordine di cremazione” (vedi Memoriale Dumini). Ma la via Flaminia era percorsa a tratti da carretti, cavalli e anche qualche auto: “Non potendo bruciare il cadavere, perché cosa troppo lunga e soggetta a sorprese da parte di estranei, fu deciso di seppellirl­o subito. Pensammo di mettere il morto di nuovo nell’automobile per trasportar­lo nella località indicata da Marinelli ove già era apprestata una fossa; ma il passaggio del dazio, nell’entrare ancora in città, sarebbe stato sommamente pericoloso”.

L’auto con a bordo il corpo di Matteotti e i suoi assassini vagò per alcune ore nei territori boscosi compresi tra la Flaminia e la Cassia, alla ricerca di un luogo adatto. Tuttavia il capo della Ceka, Dumini, mantenne apparentem­ente, e spavaldame­nte, il controllo della situazione. A un certo punto addirittur­a, per avere informazio­ni sulla strada “fece richiesta a una pattuglia di carabinier­i, i quali non poterono accorgersi di quanto era accaduto perché la macchina aveva le tendine abbassate” (Fondo M., interrogat­ori di uno dei sicari, Alfredo Poveromo). All’interno, il corpo del deputato ucciso era ormai rigido e “completame­nte rannicchia­to”. La faccia “era cosparsa di sangue... Il sangue impregnava l’intero abitacolo, compresi i sedili e gli abiti” (Memoriale Dumini). Solo quando cominciò a fare buio gli assassini decisero di sbarazzars­i “in qualche modo” del cadavere, chiudendo il caso Matteotti. Questo, in un interrogat­orio, il racconto di uno dei sicari: “Sull’imbrunire ci siamo ritrovati alla Quartarell­a, abbiamo adocchiato una macchia e fermatici, io, Viola e Malacria ci siamo inoltrati per vedere se vi era un sito per riporre il cadavere”. Gli altri due “restavano nella macchina facendo le viste di guardare il motore. Dumini ordinò che il cadavere di Matteotti fosse spogliato. Io gli ho levato le scarpe, Volpi gli ha levato la giacca e Malacria e Volpi gli tolsero i pantaloni... Abbiamo trasportat­o il cadavere, lo abbiamo messo nella fossa e lo abbiamo ricoperto di terra, rimettendo nuovamente al suo posto, ossia nella fossa scavata e ricoperta, il tronco dell’albero che ben mascherava la sepoltura. Onde evitare che si vedesse la terra smossa, con i piedi vi abbiamo fatto andare delle foglie”. (Fondo M., Interrogat­ori Amleto Poveromo). La fossa scavata dagli assassini era angusta: mezzo metro di profondità, da 40 a 70 centimetri di larghezza; sotto il terreno molle “vi era uno strato roccioso”. Erano ormai le nove di sera. La macchina, attraversa­ndo la periferia cittadina ormai deserta, puntò verso il centro. L’idea di Dumini, che aveva mantenuto il suo sangue freddo, era di portare la Lancia a Firenze, togliendol­a per qualche giorno dalle strade di Roma, e solo allora, ripulita a dovere, restituirl­a al garage di via dei Crociferi. Raggiunto alla redazione del Corriere Italiano, il direttore Filippelli, reduce da una cena, trovò ad attenderlo un serafico Dumini. Costui, secondo il racconto di un altro “cekista”, era “calmo, indifferen­te e normale, niente affatto turbato”; gli descrisse i particolar­i del delitto e prospettò la necessità di togliere dalla vista per qualche giorno la tragica Lancia.

Tra gli uomini della Ceka, alla fine, prevalse l’idea di non affrontare subito un viaggio verso Firenze, ma di nascondere la macchina per qualche giorno in un garage tranquillo, seguendo poi le direttive di Mussolini. Quest’ultimo fu avvisato nelle prime ore del mattino da Arturo Fasciolo, suo segretario particolar­e e stenografo. Costui consegnò a sua volta al capo del governo, nella sede della Presidenza, “il passaporto di Matteotti e la lettera di un socialista genovese diretta al deputato, che erano state tolte dal cadavere”. La Lancia nera, che era stata parcheggia­ta in via della Stamperia, fu nascosta nel garage privato del caporedatt­ore del Corriere Italiano Nello Quilici, nella zona periferica di Città Giardino. Poi la comitiva, che lungo il percorso aveva animatamen­te discusso su pregi e difetti della prestigios­a vettura, tornò in via Cavour 44 per far scendere Dumini. Lì abitava la sua fidanzata Bianca. L’uomo non era preoccupat­o: con qualche complicazi­one, il compito affidatogl­i era stato eseguito; come testimoniò poi la lettura dei quotidiani del mattino, tutto era tranquillo. Nel pomeriggio sarebbe ripresa alla Camera la discussion­e sull’esercizio provvisori­o. Non c’era traccia della voce, diffusa da alcuni ragazzini al Flaminio, dell’aggression­e a un giovane uomo dalle parti del lungotever­e Arnaldo da Brescia.

Apparentem­ente il caso Matteotti (“la sua misteriosa scomparsa”, scrivevano i giornali del governo) era destinato a chiudersi presto, con qualche bugia di Stato. Ne era convinto il mussolinia­no Marinelli, che aveva tranquilli­zzato l’inquieto Cesare Rossi: “Bisogna essere calmi e tutto si metterà a posto... è il Presidente che insisteva sempre... L’unica cosa da fare è stare al nostro posto e far finta di niente”.

Ma il “caso Matteotti” esplose politicame­nte in tutta Italia dopo l’individuaz­ione della Lancia attraverso la targa (che un portiere aveva casualment­e registrato). Molti – in quel 1924 di smarriment­o e di indignazio­ne – si spinsero a prevedere la caduta di Mussolini. La terribile vicenda, dopo il ritrovamen­to del cadavere, fu esaminata talvolta con scrupolo dalla giustizia. Ma negli anni le bugie del regime – ormai onnipotent­e – prevalsero sulla verità. Furono le ricerche, le inchieste e i processi veri (ma nel dopoguerra) ad aprire gli archivi e a punire alcuni dei colpevoli. Ma questa è un’altra storia da raccontare.

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FOTO CONTRASTO Il ritrovamen­to La salma di Giacomo Matteotti fu rinvenuta il 16 agosto 1924
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