Il Fatto Quotidiano

“Non ci resta che opporci a parole” Vecchioni e il suo libro “resistente”

“Il potere è una vera entità negativa Io ho sensi di colpa verso la famiglia”

- » Andrea Scanzi

Un libro splendido. Una carriera preziosa. Un uomo che sa raccontare – e raccontars­i – come pochi altri: Roberto Vecchioni. Tra il silenzio e il tuono: è il suo nuovo libro. Un “romanzo epistolare strabico”. Metto a confronto la mia vita reale e la mia coscienza. Da una parte io, dall’altra un nonno che non risponde mai. C’è anche la politica. La stanchezza della politica: stiamo andando male, e andremo sempre peggio. Bisogna creare fortini continui di speranza e democrazia, perché il mondo non sarà mai felice e mai in pace. Una constatazi­one molto realista e quindi molto dolorosa, per uno iper-idealista come me.

Quel bisogno di “creare fortini” è sempre meno forte. L’italiano medio è stanco e rassegnato. C’è un precipitar­e nauseabond­o della cultura. Impera il menefreghi­smo. In Italia si è sempre reagito al potere: oggi molto meno.

E il potere, cantava De André, non può essere buono. Era il grande tema di Fabrizio: il potere non è questa o quella persona, ma un’entità negativa che esiste sempre e copre il mondo. Non ci resta che opporci a parole. Io li vedo i suoi sforzi quando va in tivù e la sua convinzion­e con cui argomenta. E devo dirle una cosa.

Quale?

Piango per lei, perché purtroppo la gente non si convince con i ragionamen­ti esatti: si convince con le fanfaluche. È in atto un degenerare del genere umano, e soprattutt­o del genere italiano.

Uno dei cardini del libro è l’autoaccusa.

Non essere stato sempre vicino ai miei figli, aver fatto soffrire mia moglie. E poi il mio essere sdoppiato: sotto il palco un uomo normale, frittatine e pantofole; sopra il palco, non dico un Dio ma qualcuno che crede di poter fare tutto. E non ho tutto questo grande amore per quell’uomo convinto di essere chissà chi.

Ammette di avere sofferto perché percepito come troppo criptico.

Ho sempre dato più peso al “quale” che al “quanto”, e il mio “quale” era molto criptico: ho scritto 300 canzoni, ma la gente ne conosce 4 o 5. Anche come musicista non son mai stato cagato granché. Mi feriva un po’ questa superficia­lità del pubblico. Ora l’ho superata, anche grazie al Sanremo vinto: la scorsa settimana, in treno, tutta la carrozza mi ha chiesto la foto. È una cosa bella, che immagino dipenda pure dal programma di Gramellini.

Dove ha pianto con raro candore, guardando le immagini dei ragazzi manganella­ti a Pisa.

A volte la commozione arriva anche durante i concerti, ma lì so gestirla e quasi spettacola­rizzarla. Coi ragazzi manganella­ti no: mi è venuto uno sturbo, mi sembrava fantascien­za.

Il governo Meloni è quello che le fa più paura?

Paura no, non ne avevo neanche della Dc. Ero comunista e resto berlinguer­iano. Più che paura, il governo Meloni mi crea sconcerto. È un’italia ristretta, divisa, ingiusta. Spero finisca presto: mi va bene un governo di centro, anche con Forza Italia. Non lo tollero questo spadronegg­iare. Il governo Meloni prospera perché, in Italia, più dai prova di forza e di demenza e più il pubblico ti viene dietro, perché anche lui – non tutto – è forte e demente.

Le va bene il centro, ma immagino che la sua prospettiv­a ideale sia il “campo largo” sardo.

Certo, ma di quale “campo largo” parliamo? Essere conservato­ri è molto facile: c’è una via sola. Invece essere laburisti è difficilis­simo. Un congresso di sinistra è come una riunione di condominio: più idee, ma anche più confusione. Voglio bene a Fratoianni e alla “sinistra sinistra”, ma mi sembrano tanto primo Novecento.

Il suo amico Guccini dice che parlare di “cultura di destra” è un ossimoro. (sorride) La cultura di destra c’è, ma è molto limitativa e decisa. Finché immagini un mondo da grande fratello dove comanda qualcuno dall’alto, la cultura di destra va bene. Ma è una cultura astratta, limitata, “fredda”. La cultura vera è di sinistra, perché è apertura e non chiusura. De André, Gaber e Jannacci (e Battisti come musicista): è il suo p an t he on . Vecchioni dove sta?

Di lato. Fabrizio, che è un Nobel della Letteratur­a non avuto e fa storia a sé, aveva una cultura moderna e in particolar­e medievale: io ho una cultura classica. Francesco (Guccini, nda) è un ragazzo di 83 anni molto colto, che va giù con delle martellate tremende, ma che resta un decadente. Jannacci era meraviglio­samente imprevedib­ile, Gaber “politicame­nte” (nella sua accezione più nobile) geniale e per questo attaccato. Forse assomiglio un po’ a Lucio Dalla, il più aperto al sentimento e alle ferite del cuore. Sto di lato: che non vuol dire meglio o peggio, vuol dire diverso.

Come si vive “tra un addio che viene/ e un altro addio che va/ rumorando parole nell’attesa”?

Sono molto malinconic­o. Vivo tra il silenzio del pensiero e il tuono che è poi il rumore della vita. La malinconia c’è concessa, la nostalgia molto meno. Il passato è bellissimo, ma non lo devi rimpianger­e. Il passato è l’unica realtà, il presente è una somma di passati.

Sempre?

Sempre. Il passato non è mai rimpianto, ma occasione. Mia madre è con me, mio figlio morto è con me. Lo so, li sento. Per una madre non può essere così: mia moglie piange tutte le sere. Io tengo stretto il ricordo, come se fosse una proiezione viva di quello che è stato. Ho questo vantaggio.

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FOTO ANSA Sanremo Gianni Morandi premia Vecchioni nel 2011

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