L’amore ci rende tutti “Estranei” nelle notti inglesi
Chi ha visto i precedenti di Andrew Haigh, raffinato autore britannico classe 1976, sa quanto l’amore, ovvero frammenti e complicazioni di relazione, sia centrale nella sua poetica. Non fa eccezione l’ultimo Estranei, in originale All of Us Strangers, già in sala, che pure rispetto ai suoi vertici – Weekend (2011) che contempla l’incontro tra due ragazzi con realismo e verità, 45 anni (2015) che nel rinvenimento di un corpo amato fa l’esame autoptico a una coppia – rincara la dose cinematografica, accostando all’abituale dramma intimista il mélo e il fantasy, approssimando persino il musical. È un film colto, intelligente, romantico e straziante, che alla natura fantasmatica dell’amore associa una tattilità, una carnalità inusitata, con mani bressoniane, accessi sirkiani, congegni hitchcockiani.
Manomettendo il corso del tempo nel flusso del sentimento, trova l’elaborazione del lutto, l’evoluzione dell’identità gay (e queer…), la costruzione del sé e la solitudine urbana. C’è molto, e di profondo, in Estranei, traduzione monca del più compiuto e complesso Strangers, che si posa sullo schermo quale trepida carezza e schiaffo dolente, ricordandoci peraltro come riconoscersi sia preliminare e financo prioritario al conoscersi.
Scritto e diretto da Haigh, a partire dal romanzo omonimo del giapponese Taichi Yamada (Nord), ci precipita soave in una notte londinese, in un condominio pressoché disabitato, dove il quasi cinquantenne Adam (Andrew Scott) s’imbatte in un misterioso inquilino, il più giovane Harry (Paul Mescal), che rappresenterà una inaspettata soluzione, almeno di continuità, al suo sopravvivere. Perché Adam disponibile quanto neghittoso, generoso quanto furtivo risiede per la gran parte nel passato, nei ricordi, nella periferia, nella casa d’infanzia in cui stanno, ancora oggi, i genitori (Claire Foy e Jamie Bell) morti trent’anni prima in un incidente automobilistico. La sua età corrente eccede quella del padre che non ne consolava il pianto, della madre che non ha goduto delle sue marachelle, e siffatto straniamento spazio-temporale apre il film, e parimenti lo spettatore, alle associazioni libere, a una immanenza con licenza, se non di trascendere, di trasgredire dal mero commiato e dal solito cordoglio. Coesistenza, di vita e morte, di vivi e morti, catalizzata dall’amore e solo quello, in cui spiriti del Natale (tra)passato di matrice dickensiana e spettri, letteralmente, metro-politani si tengono per mano, e ci prendono adamiticamente il cuore.
La fotografia, che non dirime tra “sogno” e realtà, dell’ottimo Jamie D. Ramsay, il montaggio astuto di Jonathan Alberts, le musiche fondamentali di Emilie Levienaise-farrouch, tutto corrobora la sensazione dello smarrirsi e il sentimento del ritrovarsi, serviti con rara maestria, con stupefacente cura dai quattro interpreti, alle cui prove i nostrani colleghi dovrebbero abbeverarsi. Non perdetelo, vi farà male e bene insieme, come vuole, e può, The Power of Love che ascoltiamo nel finale: “I’ll protect you from the hooded claw/ Keep the vampires from your door/... Love for you”.
Haigh si conferma un ottimo narratore dei sentimenti (e dell’eros)