Il Fatto Quotidiano

Sono pazzi questi impiegati: gli inetti, da Gogol’ a Kafka

Adelphi licenzia una nuova edizione delle “Memorie” del folle burocrate che si crede Re: un protagonis­ta della letteratur­a, non solo russa Tragicomme­dia in salsa zarista

- » Luca Sebastiani

“QQuale che sia l’intensità dell’orrore, esso non supera mai il divertimen­to, la furibonda gioia del cantastori­e, la felicità Giorgio Manganelli su Nikolaj Gogol’

uale che sia l’intensità dell’orrore, esso non supera mai il divertimen­to, la furibonda gioia del cantastori­e, la felicità del possedere tutte le parole per raccontare, incantare, affabulare”. Quando si legge Nikolaj Gogol’ non si può che sottoscriv­ere queste parole vergate dalla mano di Giorgio Manganelli quando toccò a lui recensire, quattro decadi fa, l’autore più geniale della letteratur­a russa.

Per farne la prova basta questo breve racconto, Memorie di un pazzo, appena ripubblica­to da Adelphi con la consueta accuratezz­a di Serena Vitale. Si tratta di uno dei racconti della raccolta Arabeschi del 1835, in cui per la prima volta ritroviamo l’ambientazi­one pietroburg­hese e “il piccolo uomo” tipicament­e gogoliano, figura di impiegato della mastodonti­ca amministra­zione della Russia imperiale, già ordinata da Pietro il Grande in quattordic­i ranghi, a ognuno dei quali non solo era assicurato un compenso e un prestigio corrispond­ente al grado, ma anche un abbigliame­nto paranoicam­ente dettagliat­o nei minimi particolar­i: numero di bottoni, ampiezza, lunghezza, materiali, stoffa... Una burocrazia gogoliana prima di Gogol’ nella sua iperbolici­tà, nell’assurdità delle sue pretese, nella risibilità nelle sue finalità.

Poprišcin, il protagonis­ta folle, è un impiegato della Capitale zarista di rango piuttosto basso, la cui qualità precipua consiste nel temperare alla perfezione le penne d’oca del direttore. Umile fino al servilismo con Sua Eccellenza, disprezza invece i funzionari di rango inferiore e i popolani, oltre a odiare il capouffici­o di cui si sente vittima. Dal suo punto di vista sono solo i meschini complotti d’ufficio che gli impediscon­o di ricoprire una collocazio­ne nei ranghi riservati alla nobiltà feudale, tanto che quando scopre che la figlia di Sua Eccellenza, di cui è segretamen­te innamorato, è promessa a un bellimbust­o titolato, un kamer-junker, rompe gli argini e si prende direttamen­te per il re di Spagna col nome di Ferdinando VIII.

In Memorie di un pazzo Gogol’ fa ricorso a un tòpos ampiana mente sfruttato nel periodo romantico e amato dal pubblico. Quello russo in particolar­e aveva adorato leggere la Casa dei pazzi, in cui Vladimir Odoevskij aveva raccontato i grandi uomini, Bach, Beethoven e altri tipi geniali perché è nella follia che si rivela la grandezza oltre le convenzion­i. Anche Gustave Flaubert, solo un paio d’anni dopo Gogol’, scriverà le sue Memorie di un pazzo, confession­i delle più intime passioni romantiche, che solo dietro la maschera della follia potevano esser dette. Ma già in Flaubert queste passioni apparivano illusorie. E illusorio appariva anche a Gogol’ il romanticis­mo, che nel suo racconto rovescia mettendolo alla berlicon uno stile parlato materialme­nte incarnato. Solo se si legge questo racconto tenendo conto di questa vena parodica si può apprezzare la comicità gogoliana che non si risolve nella battuta, ma nella deformazio­ne grottesca che nasce proprio dalla tensione tra lo slancio romantico dei personaggi e la loro miseria reale. Anche i cani, che non solo qui parlano ma scrivono lunghe lettere appassiona­te, sono la parodia dei sentimenta­li romanzetti dell’epoca. L’autoingann­o romantico, che in Flaubert condurrà alla follia d’amore piccolobor­ghese di Madame Bovary, in Gogol’ non può che condurre a una follia iperbolica, felice.

Se è vero l’adagio dostoevski­ano secondo cui tutta la letteratur­a russa “è uscita dal Cappotto di Gogol’”, è altrettant­o vero che Poprišcin o Akakij Akakievi sono i capostipit­i degli uomini inetti e senza storia, degli impiegati o funzionari che invaderann­o la letteratur­a occidental­e tra Otto e Novecento – da quelli affetti dalla “malattia dell’ufficio” di Balzac, agli uomini di Dostoevski­j che scrivono le loro Memorie dal sottosuolo; da Bartleby lo scrivano del rifiuto di Melville ,a L’assistente di Robert Walser, passando per gli impiegati di Svevo e Pirandello via via fino ai piccoli uomini in trappola di Kafka.

Alle metà del secolo scorso Charles Wright Milles degli impiegati scriveva che “se hanno avuto una storia, essa è priva di eventi: se hanno interessi comuni, non sono tali da farne una classe omogenea: se avranno un futuro non sarà certo per opera loro”. Sono parole che calzano alla burocrazia odierna, all’uomo contempora­neo e a tutti i personaggi letterari sopra elencati, in particolar modo a quelli che Gogol’ aveva già tratteggia­to con irresistib­ile estro comico due secoli fa.

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