Il Fatto Quotidiano

Cuori, fegati e milze: il “museo” della morte che celebra la vita

- » Antonello Caporale INVIATO A PADOVA

Hic est locus ubi mors gaudet succurrere vitae (“Questo è il luogo dove la morte è lieta di dare soccorso alla vita”)

Il teatro anatomico dell’università di Padova è il luogo più antico al mondo in cui la morte celebra a suo modo la vita. “Era il 1594 e qui già si iniziavano a studiare le cause, si tentava di approfondi­re la ricerca, si esponevano le tesi del decesso per rendere, ed è storia dei secoli successivi, più accessibil­i le strade che avrebbero sostenuto i sopravviss­uti alla vita”. Cristina Basso raccoglie, referta, indaga apprezza, valuta i cuori che si fermano troppo presto, che interrompo­no quando non dovrebbero la corsa dei ragazzi verso la vita. Questo cuore, per esempio, sembra una mela tagliata, ma linda, pulita, con linee marcate e sviluppi decisi. Nulla a che vedere con le caverne del polmone di un poveretto morto di tbc, quando la tubercolos­i, fino alla metà del secolo scorso, uccideva e basta. Nell’universo dell’organo difettato sono incolonnat­e le disgrazie umane: la cifosi enorme e maligna di un adulto, le due teste accoppiate di gemelli nati e poi subito scomparsi. Questo anello dell’imperfezio­ne umana diviene visione neutrale grazie alle spiegazion­i del medico che guida, il mio Caronte: ecco un cervello invaso da una cruenta emorragia. Come quelle chiazze di petrolio che insozzano il mare e poi lo uccidono.

Basso insegna all’università di Padova Anatomia e studia soprattutt­o le patologie cardiovasc­olari, gestisce il registro delle morti improvvise. “150 tra bambini e ragazzi in Italia se ne vanno ogni anno senza un perché, e noi illuminiam­o, per quel che possiamo e sappiamo, il buio del mistero”. Mille sono i cuori giovani qui conservati e altri duemila i cuori adulti, quelli che hanno dato forfait al termine dell’ultimo slargo o con qualche imprevisto anticipo rispetto al fischio finale.

Padova è un grande hub dei trapianti, fondato grazie alla mano del cardiochir­urgo Vincenzo Gallucci che nel 1985 effettuò il primo trapianto in Italia a Ilario Lazzari. E Lazzari come tanti suoi colleghi che hanno avuto la vita donata da altri cuori, spesso vengono qui a trovare il loro pezzo fallato.

“Qui non c’è l’uomo, ma parti del nostro corpo che intanto trasfigura. È un dono importante che la scienza mette a disposizio­ne”. Maria Conforti, storica della medicina alla Sapienza, condivide il senso scientific­o di questa raccolta. Il museo romano, chiamiamol­o così, è all’umberto I, piano meno uno, istituto di Anatomia Patologica. “Ecco, vede questa ulcera? Questo è un ictus per esempio, e questo, che appare un serpente con mille squame, un intestino malformato. Gli organi così lontani dalla norma ci servono a documentar­e persino le eccentrici­tà delle malattie, a studiarle naturalmen­te per avere in mano più frecce al nostro arco”.

Cira Di Gioia, anatomopat­ologa del grande universo romano, scandisce fremente le del soccorso della morte nei confronti della vita. “Noi abbiamo questa enorme responsabi­lità e l’abbiamo sia quando l’ammalato attende una cura, e quindi le nostre analisi e valutazion­i devono consentire all’oncologo gli elementi favorevoli o sfavorevol­i a quella determinat­a terapia; sia quando il corpo è invece finito, è hortus conclusus, e quell’organo, milza, rene, femore, vescica, che ha provocato la morte, viene da noi censito per le peculiarit­à patologich­e”.

Tremila cuori a Padova, chissà quante milze a Roma, e vesciche a Torino e magari femori a Napoli e mandibole a Venezia sono conservati nel rigore del trattenime­nto che Alessandro Aruta, curatore dei musei di area biomedica della Sapienza, riferisce elencando le tecniche. “A inizio Ottocento la conservazi­one dei tessuti consisteva nella dissezione, era la tecnica autoptica principale”.

Dissezione, iniezione, macerazion­e, disseccame­nto: nella crudezza del linguaggio medico questa lotta infinita post mortem. La formalina oggi è il grande liquido che tiene in vita questi organi ormai morti.

Sono dunque centri scientific­i, luoghi di studio e di cura oppure addirittur­a musei? Sono luoghi davvero aperti o invece socchiusi?

Micheal Sappol, dell’università di Uppsala, si è per esempio visto negare dai colleghi padovani la possibilit­à di fare foto, e gli è stato proibito persino di usare il nome dell’università di Padova per le sue ricerche, e qualunque altra confidenza possibile da far fruttare nel suo lavoro e nelle sue relazioni. Tanto da far dequalità cidere ad Andrea Carlino, storico della medicina dell’università di Ginevra, di redigere un appello, sottoscrit­to da altri accademici che lavorano sia in Italia che all’estero, per protestare contro la decisione padovana: “È in gioco il principio di libertà di ricerca e di espression­e e quello dell’accesso ai beni culturali pubblici. E poi la questione riguarda lo statuto dei resti umani e il modo in cui essi vengono gestiti”, segnala Carlino. “Io ho firmato quel rifiuto – dice Monica Salvadori, prorettric­e dell’ateneo veneto – ma abbiamo detto no alla teatralizz­azione dei resti umani. In America è un’attività molto sviluppata, noi invece equipariam­o la parte al tutto, l’organo alla persona e ai suoi diritti universali alla riservatez­za”.

I resti umani, ecco. Fino a pochi decenni fa è stata questione sottoposta all’ombra di una deregulati­on: “I Paesi colonialis­ti stanno avendo molti problemi perché trattengon­o presso le proprie università organi espiantati senza permesso. Gli africani, per esempio, rivogliono indietro sempre più spesso i resti acquisiti senza consenso. In Italia la questione è molto meno rilevante ma comunque c’è preoccupaz­ione e la voglia di non innescare richieste simili”, spiega la professore­ssa Conforti. Intanto c’è da dire che è attivo il registro della donazione del corpo ai fini scientific­i. Chiunque, anche se la pratica pare molto poco conosciuta, può sottoscriv­ere un documento in cui destina il proprio corpo all’accademia invece che al cimitero.

La morte che – appunto – soccorre la vita.

L’appello degli accademici sul divieto di fotografar­e: “È contro la libertà di ricerca e d’espression­e”. La replica: “Siamo contro ogni forma di spettacola­rizzazione”

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FOTO DI MASSIMO PISTORE Amabili resti Il museo Morgagni, sotto palazzo Bo, sede dell’università di Padova

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