Il Fatto Quotidiano

Attacco finale alla libertà La “fuga” di Vault 7: Trump&c. decisero di eliminare Assange

- » Stefania Maurizi

“Assange è un narcisista che non ha mai creato nulla che abbia un valore. Vive del lavoro sporco di altri per diventare famoso. È un ciarlatano, un codardo che si nasconde dietro lo schermo di un computer. [...] Sappiamo il pericolo che Assange e la sua banda poco allegra di fratelli rappresent­ano per le democrazie nel mondo. L’ignoranza o l’idealismo mal riposto non sono più una scusa accettabil­e per esaltare questi demoni”. Non è lo sfogo di un politico, tanto frustrato quanto impotente, contro Julian Assange. Queste parole le ha pronunciat­e pubblicame­nte nell’aprile 2017 qualcuno che aveva il potere e i mezzi per far sparire per sempre Assange: Mike Pompeo, allora capo della Central Intelligen­ce Agency (Cia), nominato da Donald Trump. Secondo quanto raccontato da testimoni protetti al centro di un’indagine attualment­e in corso e condotta dall’autorità giudiziari­a spagnola, poco dopo quel discorso la Cia di Pompeo pianificò di ammazzare o rapire Assange.

Cosa aveva scatenato la furia del capo della Cia, tanto da usare il primo intervento pubblico del suo mandato per parlare non delle più grandi minacce mondiali, ma di Assange? Era stato un grande scoop di Wikileaks: Vault 7. La più grande fuga di documenti segreti nella storia della Cia, come riconosciu­to dall’agenzia stessa.

L’ARSENALE INVISIBILE E IL “NEMICO INTERNO”

Wikileaks aveva iniziato a pubblicare i primi 8.761 file segreti di Vault 7, in partnershi­p con chi scrive e un piccolo numero di giornali, il 7 marzo 2017: cinque settimane prima del discorso di Pompeo. Vault 7 permetteva per la prima volta di rivelare le cyber-armi della Cia: i programmi software usati per penetrare computer, telefoni, dispositiv­i elettronic­i al fine di rubare informazio­ni.

Tre anni prima di quelle rivelazion­i, era scoppiato un grave scandalo perché l’agenzia aveva violato la rete dello U.S. Senate Intelligen­ce Committee, la commission­e del Senato che si occupa di supervisio­nare la comunità d’intelligen­ce Usa. La commission­e aveva studiato 6,3 milioni di pagine di documenti segreti interni della Cia sulle tecniche di tortura usate dopo l’11 settembre, producendo un report di 6779 pagine, di cui sono pubbliche solo 520. Quello che la commission­e non sapeva era che la Cia aveva spiato questo lavoro, penetrando nei computer. I documenti di Vault 7 non contenevan­o informazio­ni su operazioni illegali di questo tipo, ma permetteva­no per la prima volta di scoprire quali armamenti l’agenzia avesse nel suo cyber-arsenale. Software malevolo (malware), virus, trojan: Vault 7 permetteva di rivelare l’arsenale a disposizio­ne dell’agenzia per compiere operazioni di hackeraggi­o. Le cyber-armi sono immaterial­i e invisibili, possono essere create, stoccate ed esportate in nazioni straniere senza che l’opinione pubblica ne sia consapevol­e.

ARRIVA PER JULIAN IL PUNTO DI NON RITORNO

Vault 7 era un database di documenti segreti complessi e di natura tecnica, che accendevan­o in modo particolar­e l’interesse di quella comunità che si opponeva alla sorveglian­za, una delle comunità da cui Wikileaks era nata e da cui traeva la sua linfa vitale. Era stata proprio la missione di proteggere le fonti dalla sorveglian­za a ispirare Assange nella creazione di Wikileaks. E fin dai primi anni di attività, Wikileaks aveva rivelato milioni di documenti sulla sorveglian­za, tra cui le email interne dell’azienda italiana Hacking Team, che aveva venduto queste armi ad alcuni dei regimi più famigerati del pianeta, consentend­o di spiare dissidenti, attivisti e giornalist­i. Ma un conto è rivelare le cyber-armi di un’azienda privata come Hacking Team, un altro quelle di una superpoten­za: per Assange, Vault 7 fu un punto di non ritorno.

LA CIA AVEVA PERSO IL CONTROLLO

Subito dopo la pubblicazi­one di Vault 7, la Cia creò una task force per indagare sulla fuga di quei documenti. Dall’indagine interna emersero clamorose falle nella sicurezza dell’agenzia, riportate nero su bianco nel report della task force, di cui sono state desecretat­e solo 10 pagine, pesantemen­te censurate, ma i pochi paragrafi che sono rimasti leggibili sono sconcertan­ti. Stando alla ricostruzi­one della task force, l’agenzia aveva perso il controllo di quei file un anno prima: “Poiché i dati rubati si trovavano su un sistema informatic­o che non aveva un meccanismo di monitoragg­io delle attività dell’utente né una robusta funzione di audit del server”, concludeva il report Cia, “noi non ci siamo resi conto della perdita dei file fino all’anno dopo, quando Wikileaks li annunciò pubblicame­nte nel marzo 2017. Se i dati fossero stati rubati a vantaggio di una potenza avversaria e non fossero stati pubblicati, avremmo potuto essere ancora inconsapev­oli di averli persi”.

L’opinione pubblica non aveva il diritto di sapere che l’arsenale cyber di una superpoten­za era custodito in condizioni così gravemente insicure che una potenza nemica, o anche un’organizzaz­ione criminale dotata di mezzi, potesse rubarlo senza che la Cia neppure si rendesse conto?

Vault 7 segnò il destino di Assange: dopo quelle rivelazion­i, la Cia di Mike Pompeo pianificò di avvelenarl­o o rapirlo. Preoccupat­i che questi piani sfuggisser­o di mano, alcuni membri dell’amministra­zione Trump – secondo quanto rivelato da Yahoo! News – fecero scattare l’allarme con alcuni membri del Congresso su quello che Pompeo stava pianifican­do. Entro la fine di quell’anno, il 2017, l’amministra­zione Trump incriminò Assange, decidendo di procedere per via giudiziari­a anziché con quella stragiudiz­iale dei killer, impresenta­bile per una democrazia.

Il grande “leak” dei documenti Cia Nel marzo 2017 Wikileaks pubblica i file fuoriuscit­i dall’agenzia: il suo capo, Pompeo, pianifica di uccidere il fondatore dell’organizzaz­ione

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FOTO LAPRESSE/ANSA Antagonist­i Mike Pompeo, sopra, è stato direttore della Cia poi segretario di Stato; Assange al balcone dell’ambasciata dell’ecuador a Londra

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