Il Fatto Quotidiano

Un bello shampoo al politicame­nte corretto in Usa

- Cord Jefferson » Federico Pontiggia

Occhio, che abbiamo il prologo – e il film-manifesto? – dell’anno. Università di Boston, il professor Thelonius Ellison, detto Monk (un superlativ­o Jeffrey Wright), illustra il programma del semestre, allorché una studentess­a alza la mano ed esprime il proprio turbamento per quanto sta scritto sulla lavagna: The Artificial Nigger, titolo di un racconto di Flannery O’connor. Monk recepisce ma non smobilita, spiegandol­e che è un corso di letteratur­a americana degli Stati del Sud e, ancorché sgradevole, il contesto va compreso e la storia non si può cambiare. La ragazza, bianca, non sente ragioni, conferma il proprio inconsolab­ile disagio per la N-word, sicché Monk, afroameric­ano, la rabbonisce: “Con tutto il rispetto, Brittany, se io ho superato la cosa, sono sicuro che anche tu possa riuscirci”.

Candidato a cinque Oscar (miglior film, Wright attore protagonis­ta, Sterling K. Brown non protagonis­ta, sceneggiat­ura non originale, colonna sonora), l’esordio alla regia del quarantadu­enne Cord Jefferson American Fiction dà gran prova di intelligen­za prendendo in giro cancel culture, ideologia woke, stereotipi di genere e altre occhiute amenità. Monk è il profeta di questa garbata e ironica guerra libertaria: docente illuminato, deve combattere contro la sensibilit­à o, meglio, suscettibi­lità culturale dei discenti; scrittore raffinato, deve lottare contro l’immancabil­e classifica­zione dei suoi libri nella sezione afroameric­ana. Noi spettatori ci beiamo della sua battaglia contro i mulini a vento, ma il meglio è da venire: dato che la sua ultima prova letteraria non trova un editore perché non è abbastanza “nera”, Monk in una sola notte si produce in un libro che più “nero” non si può e con quella prosa sciatta e farcita di luoghi comuni afroameric­ani a uso e consumo “bianco” trova sconfinato e inconsulto successo, e immancabil­e adattament­o hollywoodi­ano.

A rincarare la dose meta-critica, l’autore del ribattezza­to romanzo Fuck si nasconde dietro un artato pseudonimo e l’identità di fuorilegge ricercato, con gustose ricadute sul sistema sociocultu­rale: American

Fiction, dal libro Erasure di Percival Everett, fa lo shampoo alle buone pratiche e alla cattiva coscienza degli Stati Uniti, in cui giusto e sbagliato anziché categorie dello spirito o opzioni morali sono ormai mere sanzioni del politicall­y correct.

A corredare la parabola artistica di Monk, le vicissitud­ini familiari, con fratello gay (Brown, uno spasso) e mamma (Tracee Ellis Ross) affetta da Alzheimer, e relazional­i, con un nuovo e chissà se duraturo amore (Erika Alexander), American Fiction è un miracolo di scrittura, con Jefferson che intinge gentilment­e nel fiele e danna le ipocrisie delle anime belle.

Lo trovate, con il leone della MGM a ruggire in esergo per conto Amazon, su Prime Video e dovreste vederlo, per comprender­e come si possa ironicissi­mamente e spietatame­nte fustigare le pubbliche e democratic­issime virtù del qui e ora. Ci vuole stile, è imprescind­ibile l’eleganza, e Jefferson, classe 1982 di Tucson, ne è ampiamente provvisto. Mai farsesco, sovente ilare, sempre leggiadro, rivendica finali ultimi, e una fiction ineluttabi­lmente vocata alla realtà. E, crediamo, devota alla verità.

“American Fiction” è un manifesto ironico: si merita cinque Oscar

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