Israele e Palestina: la vittima collaterale è la nostra lingua
Dopo massacro e rappresaglia, le parole della pace sono impronunciabili: torniamo a cercarle in due recenti testi tradotti dalla lingua inglese e dall’ebraico
Tra le conseguenze del massacro palestinese perpetrato il 7 ottobre scorso e della smisurata rappresaglia israeliana tuttora in corso, si conta la crescente impossibilità di trovare una lingua comune per parlare dalla parte della pace possibile. La strage, giorno dopo giorno, si mangia anche le nostre parole, e diventa sempre più remota la possibilità di capire l’altro: ineludibile primo passo per costruire la pace.
Qualche giorno fa una lettera del presidente della comunità ebraica di Firenze, Enrico Fink, ha criticato con durezza le parole usate durante un importante incontro su Pace e giustizia in Medio Oriente, tenutosi a Palazzo Vecchio. Fink ha l’uso di “parole e concetti mutuati irresponsabilmente dalla Shoah – dall’uso della parola ‘genocidio’ come fosse un sostantivo qualunque, fino, in una progressione che sarebbe comica se non fosse spaventosa, all’uso sistematico delle parole di Primo Levi fuori contesto”.
VISTI IL LIVELLO altissimo degli oratori di quel convegno (tra gli altri gli israeliani Ilan Pappe e Sarit Michaeli, e i palestinesi Ruba Salih e Mustafa Barghouti), e la qualità e l’onestà intellettuale di Fink, è necessario chiedersi come sia possibile superare questo muro di reciproca non comprensione, ritrovando il linguaggio comune che pure era stato, faticosamente, costruito.
In questo tentativo, difficile ma ineludibile, possono forse aiutare due recenti e importanti traduzioni, una dall’inglese e una dall’ebraico. La prima rende disponibile un saggio a più mani, uscito nel 2019 presso Columbia University Press e ora tradotto da Zikkaron, la casa editrice della Comunità di Monte Sole fondata da Giuseppe Dossetti (Olocausto e Nabka. Narrazioni tra storia e trauma, a cura di B. Bashir, A. Goldberg, 2023). L’urgenza che muove i promotori della traduzione sta – nelle parole del discorso di Dossetti all’archiginnasio (1986) – nella “memoria indelebile dell’olocausto ebraico” e “nella lucida consapevolezza che … il nostro mondo occidentale ha commesso, e continua a commettere, nei confronti degli arabi palestinesi un’enorme ingiustizia”. Nel libro, autori arabi e israeliani si interrogano sulle connessioni storiche, culturali, politiche tra Shoah e Nakba (la “catastrofe”, cioè l’esodo dei Palestinesi provocato dalla fondazione di Israele nel 1948), distinguendo continuamente tra due tragedie radicalmente diverse, ma anche connettendole attraverso il discorso che le riguarda dentro e fuori le due comunità. Una riflessione alta e documentata sugli effetti del trauma, e sulle modalità attraverso i quali se ne fa memoria. Tutto il libro ruota intorno alle parole di Edward Said per cui sebbene massacro di massa non possa essere equiparato a una espropriazione di massa, tuttavia questi due eventi “sono connessi”. Una connessione che l’eccidio di questi mesi a Gaza – per cui la Corte dell’aja ha giudicato “plausibile” l’uso della parola “genocidio” – non può che riportare alla luce: il punto è farlo non per ferire l’altro, ma per comprenderlo. Tendendo, cioè, alla possibile convivenza, non all’annullamento altrui. Nella premessa, i due curatori (professori di storia e teoria politica in due università israeliane di Gerusalemme) citano una frase del grande poeta ebreo Avot Yeshurun: “L’olocausto degli ebrei d’europa e l’olocausto degli arabi in terra d’israele sono un unico olocausto del popolo ebraico. Entrambi guardano uno all’altro diritto in faccia”. E commentano: “Non sono mai state scritte parole più potenti in ebraico su questo argomento”.
Guerra
IL SECONDO libro (Mahmud Darwish, Con la lingua dell’altro, a cura di Francesca Gorgoni, Portatori d’acqua, 2023) è una lunga intervista data nel febbraio 1996 dal massimo poeta palestinese alla traduttrice e editrice israeliana Helit Yeshurun, figlia di Avot: una conversazione meravigliosa che si svolse in ebraico, “la lingua dell’altro” – proprio quello che oggi sembra impossibile. È un dialogo vero, aperto: a tratti durissimo e cupo, a tratti tenero e pieno di speranza. Molti sono i passaggi nei quali i due non riescono a capirsi: ma non viene mai meno la volontà di provarci. Una volontà tenace, per la quale non si trova una parola diversa da ‘amore’. Darwish è felice che le sue poesie siano state tanto spesso tradotte dall’arabo all’ebraico, ma nota come un errore (un melograno che diventa “granata”, nel senso di bomba…) sveli la visione stereotipata per cui se un palestinese usa quella parola pensa certo a una bomba, non al frutto. E tuttavia non si spegne la coscienza che – dice il grande poeta nazionale palestinese, parlando la lingua dell’altro – “siamo due popoli nati per essere soggetti poetici. Giunti al gioco politico, abbiamo iniziato a litigare. Quando faremo pace rideremo di tutto questo … Gli israeliani non sono più le stesse persone di quando arrivarono, e i palestinesi non sono più le stesse persone di un tempo. Nell’uno si trova l’altro”. Dirlo oggi sembra quasi impossibile: ma non c’è un’altra strada. A parte il massacro.