Alessandro Ongaro L’ultimo nostro avventuriero: nel segno di Stevenson, Dumas, London e Conrad
Avventura, dunque, e passione per il sogno e per il mistero, per la maschera e per l’azzardo, per le trame del destino e per un erotismo degno di un altro veneziano straordinario, Giacomo Casanova, declinano la sua letteratura, che non è non certamente di genere, bensì grande narrativa.
Con ogni probabilità il romanzo dedicato ad Athos, uno dei quattro celeberrimi, immortali, moschettieri di Dumas, è il suo capolavoro. È la summa della letteratura di Alberto Ongaro, dove la realtà si fa immaginazione e viceversa, l’invisibile erompe nel visibile, anche attraverso la magia, le divinazioni, i tarocchi, perché “anche la magia è avventura”, come rammentava. Ed è soprattutto, questo libro di dieci anni fa, il suo testamento. Un lascito con un senso ben preciso, che lo stesso scrittore, nel febbraio del 2014, spiegava così: “Athos, al pari di altri affascinanti personaggi immaginari, è destinato a non scomparire mai. Non a caso nel sottotitolo del romanzo ho voluto specificare: ‘Vita, avventure segrete e morte presunta di un personaggio’. Morte presunta, in definitiva. Un personaggio del genere non può morire. E infatti, dopo l’ultima riga del libro, ho inserito in chiusura, tra parentesi, un à suivre, a seguire, alla prossima puntata, come si faceva nei romanzi d’appendice di una volta: ma in quelli grandi, quelli di Alexandre Dumas”.
Ongaro, l’autore di Un romanzo d’avventura (dedicato a Pratt), La taverna del doge Loredan, La partita, Un uomo alto vestito di bianco e di altre bellissime storie, è oggi pressoché dimenticato, sebbene Piemme, quando Alberto era ancora in vita, abbia meritoriamente stampato i suoi vecchi e nuovi romanzi. Però non ha avuto neppure in passato i riconoscimenti che erano d’obbligo, salvo la dedizione che ebbero per lui pochi critici e giornalisti. Non lo riconoscevano come un grande scrittore forse perché, come diceva del suo libro su Athos, voleva divertirsi e soprattutto divertire e appassionare i lettori. “L’idea del romanzo su Athos giovane”, diceva, “mi è venuta perché mi stavo annoiando nel leggere i libri della narrativa italiana contemporanea, infarcita di ‘gialli’ e con tutti quei commissari di polizia. Avevo voglia di divertirmi e sapevo che ci sarei riuscito”. Ma sembra essere un peccato grave divertire e spingere le lettrici e i lettori ad amare l’avventura, a fare della vita, nei limiti del possibile e magari dell'impossibile, qualcosa che valga la pena di avere vissuto e di essere ricordato.