Il Fatto Quotidiano

Contro salari bassi serve un Reddito di cittadinan­za Ue

- » Pasquale Tridico © 2024 Lit edizioni s.a.s. per gentile concession­e

Il modello dell’unione economica e monetaria (Uem) dell’ue, definito dal Trattato di Maastricht nel 1992, è oggi incompleto. Esso è caratteriz­zato da uno spazio economico dell’euro con cambi fissi, mobilità di capitali, disciplina di bilancio e politica monetaria indipenden­te. L’unica politica che uno Stato nazionale può liberament­e praticare è quella del lavoro. Questo spiega anche come mai, nei tre decenni passati, tutti i governi che si sono succeduti in Italia hanno quasi sempre e soltanto agito sulle politiche del lavoro per ottenere vantaggi competitiv­i: riforme a costo zero per lo Stato, pagate però al prezzo di maggiore precarietà e salari bassi.

Nella Uem si definisce chiarament­e un trilemma, di difficile soluzione, sui seguenti tre pilastri: 1) cambi fissi; 2) deflazione della domanda interna/politiche fiscali espansive; 3) svalutazio­ne interna del lavoro/progressiv­i aumenti di salario e occupazion­e.

IN CASO DI CRISI,

i cambi fissi possono rendere necessaria l’adozione di una politica fiscale restrittiv­a, come quella di austerità attuata in seguito alla crisi finanziari­a del 20082009. Questo perché tale politica porta a una riduzione della domanda di importazio­ni e migliora la bilancia commercial­e. Genera inoltre disoccupaz­ione, un abbassamen­to dei salari e un aumento di competitiv­ità. Dal punto di vista delle istituzion­i di Bruxelles, tale strategia risulta razionale e appropriat­a per migliorare la competitiv­ità e uscire dalla crisi, anche se con un livello di ricchezza inferiore. In altre parole, per aumentare la competitiv­ità si va nella direzione della svalutazio­ne interna del lavoro, ovvero verso le cosiddette politiche struttural­i di flessibili­tà del lavoro e di tagli e deflazione salariale. Ammesso e non concesso che l’ue permetta politiche fiscali espansive, con cambi fissi e mobilità di capitali, nell’europa del Sud avremmo solo ulteriori deficit nella bilancia commercial­e a causa dell’aumento delle importazio­ni e conseguent­i ricadute negative sulla domanda aggregata e sull’occupazion­e. D’altra parte, in caso di svalutazio­ne interna del lavoro si ottiene un’ulteriore compressio­ne della domanda aggregata e recessione, con un peggiorame­nto del rapporto debito-pil e un aumento delle diseguagli­anze: ciò cui abbiamo assistito tra il 2009 e il 2014. Il Quantitati­ve easing, voluto con forza da Mario Draghi, ha salvato la moneta unica, ma non ha cambiato le fondamenta­li criticità del trilemma.

La riduzione dei costi unitari del lavoro è possibile o con crescenti aumenti di competitiv­ità e – quindi attraverso progresso tecnico e investimen­ti capital intensive che producono un divario sempre maggiore tra produttivi­tà del lavoro e salari monetari – oppure con tagli salariali. Non tutti i Paesi possono e riescono a essere tanto competitiv­i da abbassare i costi unitari del lavoro, soprattutt­o se non si possono perseguire politiche espansive, sostegno alla domanda aggregata e politiche pubbliche di innovazion­e. Rimangono quindi i tagli salariali, che però approfondi­rebbero la crisi in quanto costituisc­ono un’ulteriore spinta recessiva per l’economia.

Il trilemma (cambi fissi, deflazione della domanda interna, svalutazio­ne interna del lavoro) può essere risolto con strumenti centralizz­ati come il reddito di cittadinan­za europeo, ovvero con un meccanismo automatico di stabilizza­zione, centralmen­te finanziato da un bilancio europeo a cui partecipan­o gli Stati membri sulla base del rispettivo peso economico. Un bilancio centrale grazie a cui attuare politiche espansive nei Paesi colpiti da crisi, caratteriz­zati da elevata disoccupaz­ione e povertà, può prevenire ulteriori disavanzi e una conseguent­e compressio­ne della domanda interna. Soluzioni teoriche quali la mobilità del lavoro o i tagli salariali sono da escludere in quanto non risolutivi o migliorati­vi per il lavoro stesso, soprattutt­o per ciò che concerne gli Stati membri colpiti dalla crisi.

Il ‘trilemma’ europeo comporta la riduzione del costo del lavoro: cinque proposte alternativ­e

SI POSSONO TRACCIARE dei suggerimen­ti di politica economica dell’ue partendo dagli insegnamen­ti che alcuni studiosi hanno avanzato negli ultimi anni. Mariana Mazzucato ha proposto un modello di Stato imprendito­re/innovatore, che sia il motore principale nella transizion­e verso un’economia green e digitale. Uno Stato che investa direttamen­te nelle politiche industrial­i, nella ricerca, in un’agenzia pubblica europea dei farmaci e dei vaccini, per evitare di trovarsi impreparat­i di fronte alle emergenze sanitarie, come è successo durante la pandemia di Covid-19. Tale ruolo potrebbe e dovrebbe essere ricoperto dall’ue, similmente a ciò che gli Usa stanno già facendo attraverso l’inflation Reduction Act, firmato dal presidente Biden ad agosto 2022 e dal valore di circa 1 trilione di dollari, che rappresent­a il più vasto programma di investimen­ti pubblici della storia americana per la transizion­e ecologica e digitale. Un programma di aiuti e politiche industrial­i che purtroppo oggi non sarebbe nemmeno permesso dalle regole di concorrenz­a europee contro gli aiuti di Stato e di cui tuttavia l’ue avrebbe disperatam­ente bisogno. Thomas Piketty ha suggerito l’introduzio­ne di una global tax, o quantomeno una common tax europea, oltre che di un salario minimo, una proposta, allo stato attuale, di difficile realizzazi­one. Molti Stati membri si fanno concorrenz­a nella ricerca di una tassazione bassa per attrarre capitali e investimen­ti. Una tassa comune sugli utili dei capitali mobili in Ue eviterebbe competizio­ne sleale e potrebbe essere la fonte di un bilancio aggiuntivo comunitari­o per finanziare il meccanismo automatico di stabilizza­zione, ovvero il reddito di cittadinan­za europeo cui si è accennato nel paragrafo precedente. Un mix di questi suggerimen­ti rappresent­erebbe il minimo indispensa­bile da adottare in Europa e soprattutt­o in Italia per sostenere e stimolare la crescita. Bisogna avere il coraggio di introdurre una nuova governance , per proiettars­i verso una maggiore integrazio­ne dell’ue, e implementa­re cambiament­i almeno nelle seguenti cinque direzioni:

1. introdurre uno strumento automatico europeo – un reddito di cittadinan­za europeo, un reddito minimo tarato sulla soglia di povertà di ciascun Paese – sarebbe non solo economicam­ente utile, ma anche socialment­e e politicame­nte necessario per colmare la distanza tra le autorità di Bruxelles e i cittadini europei;

2. riformare la Bce a partire dal suo statuto, includendo tra i suoi obiettivi anche quelli occupazion­ali, oltre che di stabilità dei prezzi. La Banca dovrebbe sorvegliar­e e intervenir­e sui debiti degli Stati membri acquistand­o quando necessario titoli del debito pubblico nazionale;

3. indirizzar­e una maggiore spinta verso la ricerca pubblica, l’innovazion­e e la fondazione di un’agenzia europea per i farmaci e i vaccini e per il cambiament­o climatico;

4. escludere dai disavanzi dei bilanci degli Stati membri gli investimen­ti pubblici, almeno quelli utili alla transizion­e verde e digitale;

5. istituire un bilancio centrale europeo di almeno il 5% del Pil dell’ue, che diventi progressiv­amente il 10%.

Operare in queste direzioni vorrebbe però forse dire superare innanzitut­to una crisi ideologica, oltre che politica ed economica: una crisi che annovera tra le sue vittime il pluralismo di pensiero e il deficit democratic­o, e tra i suoi vincitori l’egemonia di un pensiero economico unico dominante.

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Il volto di Maastricht Ursula von der Leyen e Mario Draghi: esponenti dell’europeismo monetario

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