Bombe, assenti o senza slip: Oscar atomici e mostruosi
Trionfa “Oppenheimer” di Nolan con 7 statuette, seguito dalle 4 di “Povere creature”: niente all’italia di Garrone, se non gaffe e battute antisemite
La bomba a orologeria di Oppenheimer non ha fatto cilecca, ma falsi allarmi e attentati dinamitardi si son sprecati: resoconto esplosivo dei 96esimi Oscar.
“SALGA A OSCAR, CAZZO”. Il Televideo patrio se n’è uscito nottetempo con un lancio da impallidire situazionismo e surrealismo, lunare come nemmeno Armstrong, cialtronesco come la commedia all’italiana mai, che Io capitano di Matteo Garrone – absit iniuria verbis – è “ispirato alla vita del capitano Schettino e al disastro della Costa Concordia (e) aveva suscitato grande interesse e aspettative”. Forse per comprendere Quer pasticciaccio brutto de Saxa Rubra la musica può aiutarci, ovvero Con te partirò cantata da Andrea e Matteo Bocelli sul palco del Dolby Theatre: “Con te partirò su navi per mari che, io lo so no, no, non esistono più”. Partirò, si capisce, per la tangente.
DA NOI… A RUTTO LIBERO.
La trasmissione Da noi… a ruota libera l’ha presa in parola, con rigurgito d’artista: Massimo Ceccherini ha fatto stracciare le vesti alle comunità ebraiche italiane. Alla Fialdini che su Rai1 gli chiedeva un pronostico, il co-sceneggiatore di Garrone ha vaticinato: “Sappiate che Io Capitano è il film più bello della cinquina, solo che non vincerà perché vinceranno gli ebrei. Quelli vincon sempre”. Prospettava La zona d’interesse di Jonathan Glazer, ambientato ad Auschwitz e vittorioso per davvero. Poi le scuse: “La colpa è mia che sono un imbianchino. Mi sono spiegato male: intendevo il film degli ebrei, l’argomento, non è la prima volta che un film con quel tema vince. Posso chiedere scusa se qualcuno ha capito male”. Attendiamo la sollevazione delle comunità imbianchine italiane.
LIKE A ROLLING “STONE”. S’è presentata a ritirare la seconda statuetta come una scappata di casa, l’abito Louis Vuitton rotto per troppo ancheggiare su I’m Just Ken del sodale di La La Land Ryan Gosling, la voce in contumacia, insomma Baxter più che Bella, il personaggio incarnato in Povere creature!. Emma Stone ha tenuto, ehm, in riserva Lily Gladstone, nativa americana scelta da Scorsese quale protagonista di Killers of the Flower Moon. Uscito a mani vuote dagli Oscar, già si lavora al nuovo titolo: Killed of the Flower Moon.
L’ULTIMO CENA. Per celebrare l’incursione di uno streaker 50 anni fa, il wrestler-attore John Cena s’è prodotto in versione adamitica, Birkenstock – retaggio di Barbie? – ai piedi e busta a coprire le pudenda. È nudo ma non il re: una delle tante infelici gag propinate da Jimmy Kimmel, più che maestro maldestro di cerimonia, avversato da Trump e – infinitamente più grave – rinnegato dalla ragion comica.
COL BOTTO. 7 Oscar su 13 nomination: mica male. Fissato da sempre, fuso giammai, il regista inglese Christopher Nolan festeggia la prima statuetta, e con lui altri due illustri neofiti: il protagonista Cillian Murphy – a proposito, l’avete mai visto nella stessa stanza con la bambola assassina Annagli belle? – e il non protagonista Robert Downey Jr. Oppenheimer s’è affrancato da Barbenheimer e preso in solitaria la 96esima edizione de
Academy, lasciando alla creatura Mattel la consolazione canora di Billie Eilish, 22 anni e già due Oscar: l’esecuzione col fratello F i nneas O’connell di What Was I Made For? è stato il momento più alto della serata. Non che ci volesse molto. Ah, non è che l’exploit dell’atomico Oppenheimer abbia consigliato ad Hayao Miyazaki, che all’epoca della bomba su Hiroshima aveva 4 anni, di starsene in Giappone e non ritirare il premio alla migliore animazione per Il ragazzo e l’airone?
ANCHE I NERD NEL LORO PICCOLO ROSICANO.
Il campione delle tinte pastello, le geometrie perfettine, le architetture inamidate e la compagnia di giro radical chic ha dato forfait: dopo 7 nomination non trasformate, Wes Anderson ha vinto all’ottava per il corto La meravigliosa storia di Henry Sugar tratto da Roald Dahl, ma impegnato sul set in Germania non s’è scapicollato a Hollywood. Il lavoro è lavoro, eppure quanto le dimensioni– dell’opera, non della statuetta – contano? Al rosicone Anderson l’onere della prova.