Odo le multinazionali far festa: gli Usa bloccano la minimum tax
L’accordo del 2021, già depotenziato nelle intese tecniche, è fermo al Senato statunitense: ci si deve accordare su come spartirsi i soldi e Washington ci perderebbe...
“Le imprese digitali sono quelle che più di ogni altra, non dico evadono, ma sfuggono di più all’imposizione fiscale e questo è inaccettabile. Bisogna trovare il modo per far partecipare alla tassazione anche queste imprese che altrimenti sfuggono e si portano via un sacco di soldi”. Era il 2017 e a parlare era l’allora ministro dell’economia Pier Carlo Padoan, con l’italia seduta al tavolo negoziale del G20 per trovare una soluzione politica al problema dell’elusione fiscale dei giganti del web, con i vari Google, Facebook, Amazon, Netflix, Booking, tutte imprese con vendite monstre in Italia, abili nello sfruttare la “generosità” di altri paesi europei come Irlanda, Lussemburgo e Olanda per parcheggiare lì gran parte degli utili relativi alle vendite agli italiani.
Le pratiche elusive delle multinazionali deprivano, su scala globale, gli erari dei Paesi di un gettito equivalente al 10% di quello complessivo dell’imposta sul reddito delle società. Mille miliardi di dollari spostati nei paradisi fiscali solo nel 2022, pari al 35% di tutti gli utili contabilizzati dalle multinazionali al di fuori del Paese in cui hanno sede. Risorse che potrebbero essere spese per sostenere le famiglie di fronte allo choc inflazionistico legato alle tensioni internazionali e liberare risorse per finanziare la transizione energetica.
A OTTOBRE 2021,
sotto il ministro Daniele Franco, arriva finalmente l’accordo globale sulla tassazione fondato su due pilastri: una tassazione globale minima del 15% e una redistribuzione di una piccola fetta degli utili globali delle 100-200 più grandi multinazionali (digitali come Apple, Facebook ma anche il conglomerato dell’alta moda LVMH e la casa automobilistica Volkswagen) sulla base del fatturato. Con la tassazione minima globale le filiali di multinazionali italiane, americane, inglese dovranno pagare un’aliquota effettiva di almeno il 15% anche nei paradisi fiscali. Una misura che dovrebbe disincentivare l’utilizzo dei paradisi fiscali da parte delle multinazionali e un primo passo per ripensare un sistema fiscale globale dove anche i vincitori della globalizzazione sono sottoposti a rego
Retromarcia al G20 La Casa Bianca aveva spinto per la tassa minima globale, ma adesso non vuole esporsi. Giorgetti: “Rischio naufragio”
le. Celebrata come una vittoria dal G20, un’imposta minima del 15% avrebbe dovuto porre fine alla corsa al ribasso in termini di tassazione e la concorrenza fiscale tra Paesi.
Problema: da allora quell’imposta è stata devastata da una serie di loopholes ed esenzioni. Così com’è, dovrebbe aumentare il gettito fiscale globale delle multinazionali solo del 4,8%, circa 200 miliardi di dollari all’anno, invece che del 9,5%. Se abolissero le varie esenzioni, i governi potrebbero raccogliere 130 miliardi di dollari in più di entrate fiscali. Ma è vero altresì che il 15% è un’aliquota bassa (gli Usa avevano proposto il 21%), vicina a quella di Paesi come l’irlanda (12,5%) che sulla competizione fiscale a danno degli altri hanno impostato un sistema economico e un’aliquota effettiva più bassa di quella che un insegnante o un operaio paga sul proprio stipendio.
Col secondo pilastro, invece, per la prima volta i Paesi si iniziano a dividere i profitti globali delle multinazionali tra tutti i Paesi in cui una multinazionale opera. Un quarto degli utili globali delle più grandi multinazionali al mondo che eccedono il 10% di margine operativo, vale a dire la differenza tra i costi sostenuti per la produzione e i ricavi ottenuti dalle vendite, verrebbe tassata nel Paese dove l’azienda realizza le vendite, con il suo normale prelievo sui profitti societari (in Italia al 24%). Ma se la tassazione minima globale è in vigore in Italia e nell’ue da quest’anno, il secondo pilastro inizia sempre più a prendere le sembianze del gigante con i piedi d’argilla. Ad aggiornaci sul suo stato di salute è stato il ministro dell’economia Giancarlo Giorgetti: “Temo che la tassazione globale delle multinazionali vada a naufragare, questo ho percepito partecipando agli incontri del G20 e G7”. Il timore del ministro nasce dal fatto che l’entrata in vigore di una misura che permetterebbe anche al nostro Paese di tassare parte dei profitti delle multinazionali digitali richieda l’approvazione di un trattato fiscale internazionale da parte dei due terzi del Senato americano. Durante il meeting del G20 a San Paolo, in Brasile, lo scorso febbraio alcuni governi del G7 hanno inutilmente messo pressione a Janet Yellen perché nel comunicato finale si sottolineasse l’importanza di far entrare in vigore questa misura nei prossimi mesi. Ma se è anche grazie alle capacità negoziali di Yellen che un accordo su questa misura è stato raggiunto nel 2021 tra i paesi del G20, anche la segretaria del Tesoro Usa deve ora fare i conti con la politica nazionale, dove un accordo tra democratici e repubblicani per far passare questa misura al Senato è difficile, quasi impossibile prima delle presidenziali di novembre.
“È difficile credere che ci sia un supporto bipartisan per decidere il nome di un ufficio postale, figurarsi un trattato internazionale”, ha commentato il deputato Usa Kelly durante la discussione su questa misura. Il nail in the coffin, colpo di grazia, sull’approvazione arriva dalla la stima rivelata dallo studio del Joint Committee on Taxation americano che mostra come l’entrata in vigore della misura avrebbe portato nel 2021 a una perdita per le casse dello Stato di almeno 1 miliardo e 400 milioni di dollari.
Mentre il gigante dai piedi d’argilla sta lentamente naufragando nel calderone della politica americana, il governo italiano osserva impotente un sistema fiscale dove le grandi multinazionali vincitrici della globalizzazione continuano a pagare meno di chi fatica ad arrivare a fine mese. Per il governo Meloni, che ha fatto suo il motto “no alla patrimoniale, sì alla giusta tassazione per i giganti del web” e alle prese con la presidenza italiana del G7 fino a fine anno, non un gran bel vedere.