Il Fatto Quotidiano

Caso Alpi, il politico di Trieste confonde Hrovatin con una donna: “Mirian fu uccisa”

- GIUSEPPE PIETROBELL­I

Celebrare, trent’anni dopo, l’omicidio di un proprio concittadi­no avvenuto in un teatro di guerra e scambiarlo per una donna. Nell’austera sala del consiglio comunale di Trieste, il presidente della stessa assemblea, Francesco Di Paola Panteca, è rimasto vittima di un’autentica gaffe di conoscenza, piuttosto che di un lapsus della parola. Eletto con la lista “Roberto Dipiazza sindaco”, il sessantaci­nquenne di origini pugliesi (è brindisino di Oria) evidenteme­nte non sapeva che davanti a lui ci fossero la vedova e il figlio di Miran Hrovatin, il cineoperat­ore della Rai che venne ammazzato il 20 marzo 1994 a Mogadiscio, in Somalia, assieme alla giornalist­a Ilaria Alpi.

Si trattò di un’esecuzione a sangue freddo i cui mandanti non sono mai stati scoperti, un caso clamoroso che coinvolse la diplomazia italiana e il mondo dell’informazio­ne, con una scia di sospetti e processi. Eppure, Di Paola Panteca, pur dovendo introdurre un solenne ricordo pubblico, ha bofonchiat­o il nome e ha confuso il genere. Ha cincischia­to su “Mirian” al posto di Miran, che è un nome maschile sloveno molto diffuso anche a Trieste, la cui radice deriva da miru, che significa “pace”. Si è inceppato sull’iniziale “H” del cognome, come fanno spesso gli italiani, ma soprattutt­o ha spiegato che fu “…uccisa nel 1994 dal terrorismo”.

L’aggettivaz­ione sbagliata non è sfuggita ai familiari e agli amici di Hrovatin, che erano nelle prime file del consiglio comunale e sono rimasti allibiti. L’intervento di Panteca è stato brevissimo, ma sufficient­e a creare imbarazzo. Il sindaco Dipiazza lo ha dribblato riferendos­i subito al movente del commando: eliminare due operatori dell’informazio­ne “che avevano cominciato a indagare sul traffico di armi e rifiuti tossici”. Proprio sul nome ha, invece, insistito Ian, il figlio del cineoperat­ore: “Quello di mio padre viene quasi sempre associato a verbi al passivo, quasi come se fosse un oggetto invece che un soggetto, quasi come se la morte fosse nel suo destino, un’eventualit­à o un danno collateral­e della ricerca della verità. Questo però non potrebbe essere più lontano dalla realtà, perché mio padre ha rincorso e raccontato la vita”.

La verità non ha accompagna­to indagini e processi, visto che un somalo venne condannato in via definitiva in Italia a 26 anni di carcere nel 2002, ma fu assolto in fase di revisione, dopo avere scontato 17 anni da innocente.

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