Caso Alpi, il politico di Trieste confonde Hrovatin con una donna: “Mirian fu uccisa”
Celebrare, trent’anni dopo, l’omicidio di un proprio concittadino avvenuto in un teatro di guerra e scambiarlo per una donna. Nell’austera sala del consiglio comunale di Trieste, il presidente della stessa assemblea, Francesco Di Paola Panteca, è rimasto vittima di un’autentica gaffe di conoscenza, piuttosto che di un lapsus della parola. Eletto con la lista “Roberto Dipiazza sindaco”, il sessantacinquenne di origini pugliesi (è brindisino di Oria) evidentemente non sapeva che davanti a lui ci fossero la vedova e il figlio di Miran Hrovatin, il cineoperatore della Rai che venne ammazzato il 20 marzo 1994 a Mogadiscio, in Somalia, assieme alla giornalista Ilaria Alpi.
Si trattò di un’esecuzione a sangue freddo i cui mandanti non sono mai stati scoperti, un caso clamoroso che coinvolse la diplomazia italiana e il mondo dell’informazione, con una scia di sospetti e processi. Eppure, Di Paola Panteca, pur dovendo introdurre un solenne ricordo pubblico, ha bofonchiato il nome e ha confuso il genere. Ha cincischiato su “Mirian” al posto di Miran, che è un nome maschile sloveno molto diffuso anche a Trieste, la cui radice deriva da miru, che significa “pace”. Si è inceppato sull’iniziale “H” del cognome, come fanno spesso gli italiani, ma soprattutto ha spiegato che fu “…uccisa nel 1994 dal terrorismo”.
L’aggettivazione sbagliata non è sfuggita ai familiari e agli amici di Hrovatin, che erano nelle prime file del consiglio comunale e sono rimasti allibiti. L’intervento di Panteca è stato brevissimo, ma sufficiente a creare imbarazzo. Il sindaco Dipiazza lo ha dribblato riferendosi subito al movente del commando: eliminare due operatori dell’informazione “che avevano cominciato a indagare sul traffico di armi e rifiuti tossici”. Proprio sul nome ha, invece, insistito Ian, il figlio del cineoperatore: “Quello di mio padre viene quasi sempre associato a verbi al passivo, quasi come se fosse un oggetto invece che un soggetto, quasi come se la morte fosse nel suo destino, un’eventualità o un danno collaterale della ricerca della verità. Questo però non potrebbe essere più lontano dalla realtà, perché mio padre ha rincorso e raccontato la vita”.
La verità non ha accompagnato indagini e processi, visto che un somalo venne condannato in via definitiva in Italia a 26 anni di carcere nel 2002, ma fu assolto in fase di revisione, dopo avere scontato 17 anni da innocente.