“MAY DECEMBER”, IL MÉLO AMBIGUO DI HAYNES SU DUE DONNE INTERROTTE
Protagoniste speculari e complementari sono le superbe Moore e Portman
SPECCHIARSI in un ruolo, manipolarlo, ribaltarlo, distruggerlo. Il gioco al massacro dell’identità insinuata tra segreti e bugie e camuffata tra realtà e finzione, laddove si nasconde una verità irraggiungibile, è al centro del nuovo gioiello firmato alla regia da Todd Haynes, May December (in sala), sulla sceneggiatura straordinaria di Samy Burch, non a caso candidata ai recenti Oscar. Concorrente all’ultimo festival di Cannes, il dramma si ispira a un fatto realmente accaduto, e traccia una sfida al femminile nel segno dell’ambiguità morbosa e perversa con la sovrapposizione tra una donna dal passato scandaloso e una famosa attrice determinata a interpretarla nel suo prossimo film. La provincia americana fa da cornice semantica a questo racconto nerissimo travestito del chiarore cromatico della soap che inneggia agli anni 80, esemplificando l’(est)etica del contrasto che guida l’intero procedere del film: un susseguirsi di opposizioni inconciliabili che solo il cinema – il grande dispositivo dell’affabulazione – riesce a condensare in un unico, sofisticatissimo artificio.
Haynes, che della complessità femminile tradotta in mélo è maestro, è consapevole degli inevitabili prestiti forniti da maestri quali Ingmar Bergman e Brian De Palma (e dietro a quest’ultimo, ovviamente, Sir Hitchcock), ma il suo lavoro è inequivocabilmente originale, radicale ed essenziale quanto basta a ipnotizzarci pur facendoci riflettere. Complice, chiaramente il duello a colpi di virtuosismi tra Julianne Moore e Natalie Portman, tra le quali non sfigura il comprimario Charles Melton, “ragazzo interrotto”, in uno dei ruoli più delicati concepiti nel recente cinema americano.