Il Fatto Quotidiano

.LE FOSSE, VENDETTA. .DI SILENZIO E PAURA.

LA FAME, REGINA DELLA CITTÀ Come i nazisti stabiliron­o e portarono a termine la rappresagl­ia in via Rasella, in una Roma in preda alle privazioni: Kesselring temeva una sollevazio­ne generale della città

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Venerdì 24 marzo 1944 era una giornata calda, di primavera. La notizia di un assalto partigiano ai tedeschi, il giorno prima in via Rasella al centro di Roma, si era diffusa di bocca in bocca. Ma chissà, forse era solo una voce, una delle tante. Sui quotidiani – controllat­i da nazisti e fascisti – si poteva leggere una scoppietta­nte apologia del “25° annuale dei Fasci di combattime­nto” (Il Giornale d’italia) o lo scandalo delle “truppe nere nemiche impiegate a Cassino; il nemico ha sfruttato reparti di colore” (Il Messaggero). Ma la notizia del giorno era l’eruzione del Vesuvio: venivano giù fiumi di lava larghi 50 metri.

I capi tedeschi avevano deciso di tenere nascosto, almeno fino alla progettata vendetta, il sanguinoso colpo messo a segno al centro di Roma dai partigiani contro un battaglion­e di militari nazisti. Ecco il verbale dell’interrogat­orio del feldmaresc­iallo Kesselring, comandante della Wehrmacht in Italia, quando nel 1946 fu chiamato a testimonia­re:

Domanda della Corte: Faceste qualche appello alla popolazion­e romana o ai responsabi­li dell’attentato prima di ordinare le rappresagl­ie?

Kesselring: Prima, no.

Domanda: Avvisaste la popolazion­e romana che stavate per ordinare rappresagl­ie nelle proporzion­i di uno a dieci?

Kesselring: No.

Domanda: Ma voi avreste potuto dire: se la popolazion­e romana non consegna entro un dato termine il responsabi­le dell’attentato fucilerò dieci romani per ogni tedesco ucciso?

Kesselring: Ora, in tempi più tranquilli dopo tre anni passati, devo dire che l’idea sarebbe stata molto buona.

Domanda: Ma lo faceste?

Kesselring: No, non lo feci.

L’operazione sterminio, dopo una febbrile consultazi­one fra i capi nazisti, era partita all’una e mezzo di quel venerdì: due lunghi cortei dalle prigioni naziste – via Tasso (il luogo delle torture) e Regina Coeli – diretti alle Fosse Ardeatine. Ha ricordato una delle donne rinchiuse a Regina Coeli, Enrica Filippini Lera:

“Verso le 13:30 comincia uno strano movimento. Si vedono soldati mai visti prima accompagna­ti dal posten del piano; tengono in mano lunghe liste battute a macchina, chiamano i detenuti fuori dalle celle dicendo di fare in fretta... Escono i detenuti: condannati in attesa di giustizia, magari assolti. Ma in tutto questo c’è qualcosa di orribile che non sappiamo spiegare. Per la prima volta dopo il mio arresto piango... Nella parte del corridoio sotto la nostra cella vengono allineati gli ebrei. Cinque arrestati due sere prima con moglie e bambini, uno dei quali di pochi mesi. Gli ebrei sono 66. Segue l’appello degli ariani... Verso le 21 si apre piano piano lo sportello: è il posten (sempre gentile con me): mi porta un fiore da parte di P. e mi dice che non è stato preso. Ci dice che li hanno portati in Germania, ma so che mente”.

Il terrore, nella vita quotidiana della Roma del ’44, si accompagna­va alla fame, al dolore e persino alla speranza. I diari e le lettere catalogati nel dopoguerra nell’archivio Diaristico Nazionale testimonia­no di un mondo sofferente, sempre spaventato, ma come sospeso tra la morte e il domani: “Ho fame... oggi sparano ancora i cannoni (non ricordo più di quando c’era la pace) ma noi siamo tutti uniti e perciò siamo felici...”.

Oppure: “Prima fra tutte la paura. Roma ha ormai i suoi bombardame­nti giornalier­i... Alle 5 del pomeriggio ci ritroviamo tutti in casa, 12 persone in due stanze, di cui 5 ragazzini affamati e pericolosi, e 7 grandi collerici, nervosi, polemici e affamati pure loro. Ognuno pensa alla sopravvive­nza, a odiarsi l’uno con l’altro e al mangiare...” “La cosa strana è che malgrado la paura che mi ritrovo, tra infilarmi una scarpa e avvolgere una coperta attorno alle gambe, riesco, sia pure con gesti frenetici, a togliermi i bigodini dai capelli e ancor più strano è che la sera abbia ancora voglia di mettermeli, questi bigodini...”.

La regina della città era la fame. Raccontava una ragazza del quartiere Montesacro: “Con mia sorella ci volevamo suicidare per la fame. Mi sognavo il pane di notte... E le malattie, perché se non mangiavi eri debilitato e allora cimici, pidocchi. Non c’era sapone, non c’era niente. E poi il freddo. Andavi a dormire senza mangiare. È la guerra, dicevano”.

Nel pomeriggio di quel venerdì 24 marzo, i camion della morte carichi di giovani e vecchi fecero, fino al luogo dello sterminio, un percorso ben studiato. La tecnica della strage era stata decisa dopo aspri scontri fra i capi nazisti. Assente per poco il Feldmaresc­iallo Kesselring, in ispezione ad Anzio, un “portavoce di Hitler” aveva comunicato a Roma il clima isterico di Berlino: “Strepita e vuole che sia fatto saltare in aria un intero quartiere della città con tutti quelli che lo abitano” (di quell’ordine non è stata trovata traccia dagli storici). La scelta nazista dell’assassinio di massa, fulmineame­nte eseguito e non preannunci­ato, rispose probabilme­nte, insieme alla frustrazio­ne e alla crudeltà, a una situazione di paura. È questo, secondo convincent­i riflession­i degli storici, il senso della confession­e fatta molti anni dopo, quando fu catturato e processato in Italia, da Erich Priebke, il sanguinari­o nazista della Gestapo rifugiatos­i in Argentina: “Se la cittadinan­za avesse appreso che un eccidio stava per essere perpetrato... nessuno avrebbe potuto prevedere l’intensità della reazione. I partigiani avrebbero potuto organizzar­e un attacco fulmineo. L’intera città avrebbe potuto insorgere”.

Il comando dell’operazione fu affidato al feldmaresc­iallo Herbert Kappler, che dopo la guerra, al processo per i suoi crimini, ha così raccontato, orgogliosa­mente, il faticoso lavoro di assassino: “Calcolai quanti minuti sono necessari per la fucilazion­e delle 320 vittime. Calcolai le armi e le munizioni necessarie. Divisi i miei uomini in piccole squadre che dovevano alternarsi. Ordinai che ogni uomo sparasse solo un colpo, specifican­do che la pallottola doveva raggiunger­e il cervello della vittima attraverso il cervellett­o, in modo che nessun colpo andasse a vuoto e la morte fosse istantanea”.

Quanto alle persone da uccidere, il difficile elenco fu elaborato dal capo del Reparto speciale di polizia Pietro Koch. La parte dell’elenco destinata ai reclusi di via Tasso (la prigione delle torture per gli antifascis­ti) era divisa in tre categorie: “spionaggio”, “comunismo”, “ebrei”. Poiché all’operazione di morte (10 italiani per ogni tedesco) mancavano una cinquantin­a di italiani, si chiese il soccorso del Questore di Roma, Caruso, che si consultò, nella mattinata di venerdì, col ministro dell’interno fascista Buffarini Guidi. Alla fine gli italiani da ammazzare risultaron­o 335 (cinque in più di quanto programmat­o, per un futile errore di conteggio).

I sotterrane­i delle Fosse Ardeatine, cave abbandonat­e, erano un labirinto: una serie di gallerie, lunghe da 50 a 100 metri, larghe 3 metri e alte 5. Nessuna apertura: era totalmente buio. Le SS dovettero accendere molte torce. Gli uomini da uccidere erano costretti a inginocchi­arsi e inclinare la testa da un lato. Uno dei soldati tedeschi, che si alternavan­o come carnefici a gruppi di cinque, faceva luce con la torcia. Su ordine del capitano Schutz (“Puntare! Fuoco!”) un altro nazista sparava al collo della vittima, che crollava prona o supina. Ci si accorse che la massa dei cadaveri ostacolava il lavoro: le vittime furono obbligate, prima di essere uccise, a salire sui corpi senza vita, che spesso erano dei loro padri, figli, parenti.

Tutto finì alle 8 di sera. Settimane dopo fu stilato dal parente di una vittima un elenco dei 323 cadaveri identifica­ti nelle fosse:

Cattolici, 253. Ebrei, 70. Profession­i: agenti di Polizia, 1; ambulanti, 16 ; amministra­tori e uomini d’affari, 7; architetti, ingegneri e geometri, 5; attori, 2; artisti, disegnator­i e pittori, 5; assicurato­ri, 1; autisti e conduttori, 7; avvocati, 11; banchieri, 1; calzolai, 5; carpentier­i e falegnami, 11; commercian­ti e bottegai, 42; commessi di negozio, 7; dottori in scienze politiche, 1; domestici e camerieri, 2; elettricis­ti, 5; farmacisti e medici, 4; Forze Armate: aviazione, 3; carabinier­i, 11; esercito, 18; marina, 6; funzionari pubblici, 4; impiegati e segretari commercial­i, 40; impiegati alle poste e telegrafi, 4; impiegati ferroviari, 3; impiegati telefonici, 2; macellai, 5; meccanici, 13; musicisti, 1; operai edili, 2; operai vari, 28; professori, 5; terrieri e contadini, 10; sacerdoti, 1; studenti, 9; tecnici del cinema, 2; tipografi, 2”.

 ?? ?? Sangue su sangue Abitanti e passanti allineati lungo via Rasella il 23 marzo 1944, dopo l’attentato a un battaglion­e nazista FOTO ANSA
Sangue su sangue Abitanti e passanti allineati lungo via Rasella il 23 marzo 1944, dopo l’attentato a un battaglion­e nazista FOTO ANSA

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