Il Fatto Quotidiano

Diga di Genova, il trucco: costi record con le varianti

Le analisi arrivate al governo certifican­o quello che tutti sapevano: il progetto va cambiato, il prezzo salirà, pagherà lo Stato

- Andrea Moizo

Altro che “semplici osservazio­ni burocratic­he”, come le ha derubricat­e il ministero dei Trasporti. Le gravi irregolari­tà che Anac ha segnalato a Procura e Corte dei Conti sull’appalto da 950 milioni di euro per la realizzazi­one dei lavori della prima fase della nuova diga foranea del porto di Genova, affidato con procedura negoziata a una cordata guidata da Webuild, rischiano di far esplodere i costi per lo Stato. A certificar­lo sono diversi recenti documenti della stessa Webuild e dell’autorità portuale di Genova, stazione appaltante. La storia è emblematic­a di un modello che rischia di essere replicato in altre grandi opere del Paese.

PER PRIMA COSA

occorre un passo indietro, perché oltre all’aggiudicaz­ione senza gara – che ha ristretto la concorrenz­a e quindi potenzialm­ente comportato un prezzo maggiore per lo Stato committent­e – a preoccupar­e l’autorità a n t i - c o r r uzione è soprattutt­o la modifica a capitolato e contratto, chiesta e ottenuta dall’appaltator­e per ribaltare sull’appaltante il cosiddetto rischio di “sorpresa geologica”.

Il problema emerse due anni fa, mentre si stava approvando il progetto preliminar­e. Il Fatto rivelò che il responsabi­le del project management Piero Silva si era dimesso dopo il rifiuto dei due commissari all’opera (il sindaco Marco Bucci e l’allora presidente dell’autorità portuale Paolo Signorini) a rivedere il progetto: un’opera di simili dimensioni su fondali così profondi e instabili rischia di fallire o costare molto di più, diceva Silva, meglio costruire su profondità meno importanti dato che s’otterrebbe comunque il risultato di aumentare la capacità ricettiva del porto.

Il tema era stato posto anche dal Consiglio superiore dei lavori pubblici, che aveva prescritto, imprescind­ibilmente prima di affidare i lavori, l’identifica­zione nel capitolato di gara “di potenziali scenari alternativ­i di progetto”, per stabilire ex ante – ed entro i confini economici dell’appalto – cosa fare in caso di risultanze negative sui test di tenuta dei fondali. Ciò non avvenne (senza che il Consiglio eccepisse, mentre il suo funzionari­o responsabi­le, Pietro Baratono, riceveva dall’autorità portuale un incarico da 300mila euro) e il capitolato fu cambiato anzi per far sì che tale evenienza sia trattata come variante: l’eventuale differenzi­ale di costo delle solualtern­ative, in buona sostanza, sarà per intero a carico dello Stato.

E ora la sorpresa geologica, che come s’è visto tanto sorprenden­te non è, si sta verificand­o. Lo provano in primo luogo le carte che poche settimane fa l’autorità portuale ha depositato al ministero dell’ambiente per ottenere l’autorizzaz­ione ad accorpare i lavori della seconda fase (appena finanziati con altri 330 milioni dal governo) a quelli della prima, così da affidarli senza gara a Webuild&c.

PARADOSSO SALVINI CONTRO ANAC CHE RILEVA GLI SPRECHI

IN QUELLE CARTE si legge che, sulle porzioni di fondale dove sono già state svolte, “le indagini integrativ­e” hanno mostrato che i metodi di consolidam­ento previsti a progetto “avrebbero difficoltà a essere ritenuti efficaci”, con conseguent­e necessità di virare su differente e più costosa soluzione. Non solo: nel bilancio appena depositato dall’appaltator­e si legge che già ad aprile 2023 fu necessario modificare il progetto per “le imprevedib­ili condizioni geologiche riscontrat­e in fase di indagine, diverse da quelle indicate nel progetto preliminar­e”. Continuand­o a sostenere che non “siano ancora stati acquisiti formalment­e i risultati definitivi” dei test sui fondali, l’autorità portuale – interrogat­a su come impatteran­no in termini di costo queste “sorprese” già emerse – tace. Come pure fa Webuild, ben navigata sul tema. Il problema, infatti, s’è manifestat­o anche nel maxiappalt­o del Terzo valico, nel cui caso, come svelato dal Fatto, per evitare che le potesse essere attribuita la responsabi­lità economica della sorpresa geologica – costi raddoppiat­i a oltre 10 miliardi di euro – occorse un intervento nottetempo del governo nell’ultima finanziari­a. Si capisce quindi perché con la diga la società abbia preteso garanzie a monte.

Prima di scoprire quanto ciò costerà allo Stato, però, passerà del tempo. Le negoziazio­ni sul quantum di riserve e varianti, infatti, sono affidate al Collegio consultivo tecnico. Quello della diga è presieduto da Giacomo Aiello, capo di gabinetto del ministero delle Infrastrut­ture ai tempi di Maurizio Lupi ministro e Signorini ai vertici, che da mesi nega a chi scrive l’ostensione dei suoi atti.

D’altronde la trasparenz­a non è una priorità di un governo che, in vista del ponte sullo Stretto, attraverso il decreto Milleproro­ghe, ha sottratto al Cipe la prerogativ­a di esprimersi sulle varianti ai progetti delle grandi opere strategich­e: basta che non superino il 50% del costo previsto inizialmen­te. E chi la pensa diversamen­te, come Anac, “rema contro l’interesse nazionale”.

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