Diga di Genova, il trucco: costi record con le varianti
Le analisi arrivate al governo certificano quello che tutti sapevano: il progetto va cambiato, il prezzo salirà, pagherà lo Stato
Altro che “semplici osservazioni burocratiche”, come le ha derubricate il ministero dei Trasporti. Le gravi irregolarità che Anac ha segnalato a Procura e Corte dei Conti sull’appalto da 950 milioni di euro per la realizzazione dei lavori della prima fase della nuova diga foranea del porto di Genova, affidato con procedura negoziata a una cordata guidata da Webuild, rischiano di far esplodere i costi per lo Stato. A certificarlo sono diversi recenti documenti della stessa Webuild e dell’autorità portuale di Genova, stazione appaltante. La storia è emblematica di un modello che rischia di essere replicato in altre grandi opere del Paese.
PER PRIMA COSA
occorre un passo indietro, perché oltre all’aggiudicazione senza gara – che ha ristretto la concorrenza e quindi potenzialmente comportato un prezzo maggiore per lo Stato committente – a preoccupare l’autorità a n t i - c o r r uzione è soprattutto la modifica a capitolato e contratto, chiesta e ottenuta dall’appaltatore per ribaltare sull’appaltante il cosiddetto rischio di “sorpresa geologica”.
Il problema emerse due anni fa, mentre si stava approvando il progetto preliminare. Il Fatto rivelò che il responsabile del project management Piero Silva si era dimesso dopo il rifiuto dei due commissari all’opera (il sindaco Marco Bucci e l’allora presidente dell’autorità portuale Paolo Signorini) a rivedere il progetto: un’opera di simili dimensioni su fondali così profondi e instabili rischia di fallire o costare molto di più, diceva Silva, meglio costruire su profondità meno importanti dato che s’otterrebbe comunque il risultato di aumentare la capacità ricettiva del porto.
Il tema era stato posto anche dal Consiglio superiore dei lavori pubblici, che aveva prescritto, imprescindibilmente prima di affidare i lavori, l’identificazione nel capitolato di gara “di potenziali scenari alternativi di progetto”, per stabilire ex ante – ed entro i confini economici dell’appalto – cosa fare in caso di risultanze negative sui test di tenuta dei fondali. Ciò non avvenne (senza che il Consiglio eccepisse, mentre il suo funzionario responsabile, Pietro Baratono, riceveva dall’autorità portuale un incarico da 300mila euro) e il capitolato fu cambiato anzi per far sì che tale evenienza sia trattata come variante: l’eventuale differenziale di costo delle solualternative, in buona sostanza, sarà per intero a carico dello Stato.
E ora la sorpresa geologica, che come s’è visto tanto sorprendente non è, si sta verificando. Lo provano in primo luogo le carte che poche settimane fa l’autorità portuale ha depositato al ministero dell’ambiente per ottenere l’autorizzazione ad accorpare i lavori della seconda fase (appena finanziati con altri 330 milioni dal governo) a quelli della prima, così da affidarli senza gara a Webuild&c.
PARADOSSO SALVINI CONTRO ANAC CHE RILEVA GLI SPRECHI
IN QUELLE CARTE si legge che, sulle porzioni di fondale dove sono già state svolte, “le indagini integrative” hanno mostrato che i metodi di consolidamento previsti a progetto “avrebbero difficoltà a essere ritenuti efficaci”, con conseguente necessità di virare su differente e più costosa soluzione. Non solo: nel bilancio appena depositato dall’appaltatore si legge che già ad aprile 2023 fu necessario modificare il progetto per “le imprevedibili condizioni geologiche riscontrate in fase di indagine, diverse da quelle indicate nel progetto preliminare”. Continuando a sostenere che non “siano ancora stati acquisiti formalmente i risultati definitivi” dei test sui fondali, l’autorità portuale – interrogata su come impatteranno in termini di costo queste “sorprese” già emerse – tace. Come pure fa Webuild, ben navigata sul tema. Il problema, infatti, s’è manifestato anche nel maxiappalto del Terzo valico, nel cui caso, come svelato dal Fatto, per evitare che le potesse essere attribuita la responsabilità economica della sorpresa geologica – costi raddoppiati a oltre 10 miliardi di euro – occorse un intervento nottetempo del governo nell’ultima finanziaria. Si capisce quindi perché con la diga la società abbia preteso garanzie a monte.
Prima di scoprire quanto ciò costerà allo Stato, però, passerà del tempo. Le negoziazioni sul quantum di riserve e varianti, infatti, sono affidate al Collegio consultivo tecnico. Quello della diga è presieduto da Giacomo Aiello, capo di gabinetto del ministero delle Infrastrutture ai tempi di Maurizio Lupi ministro e Signorini ai vertici, che da mesi nega a chi scrive l’ostensione dei suoi atti.
D’altronde la trasparenza non è una priorità di un governo che, in vista del ponte sullo Stretto, attraverso il decreto Milleproroghe, ha sottratto al Cipe la prerogativa di esprimersi sulle varianti ai progetti delle grandi opere strategiche: basta che non superino il 50% del costo previsto inizialmente. E chi la pensa diversamente, come Anac, “rema contro l’interesse nazionale”.