Il Fatto Quotidiano

.I COLONI DI UN VIZIO. .CHIAMATO LAVORO.

- » MASSIMO FINI

Sul Fatto Michela Iaccarino ci ha raccontato come in Corea del Sud chi lavora troppo, chi ha “il vizio del lavoro” (in quel Paese si “fatica”, per dirla alla napoletana, 14 ore al giorno) venga spedito in carcere senza tanti compliment­i e soprattutt­o senza cellulare e senza orologio. Non è un caso che questa lezione, peraltro data in termini autoritari, da Corea del Nord, ci venga da un Paese orientale. Il valore del lavoro era sconosciut­o al pensiero orientale. Il Libro della norma di Lao Tse che è alla base di quasi tutto il pensiero orientale è centrato sulla ‘in-azione’, cioè la non azione, e lo stesso vale per il Buddismo propriamen­te detto, dove la serenità si raggiunge con l’atarassia, cioè con la indifferen­za alle cose del mondo (naturalmen­te, scrivendo per un quotidiano, sono costretto, per obbligo di sintesi, a un’estrema semplifica­zione). Ho detto era perché abbiamo talmente ibridato quelle popolazion­i che oggi la Cina, che è il più grande erede, in termini numerici, di quel pensiero, si è inserita nel meccanismo industrial produttivo di quello che chiamiamo mondo occidental­e. La sola differenza, peraltro da non disprezzar­e, è che la Cina conquista economicam­ente e non con sanguinose guerre, come invece ci hanno abituato gli Stati Uniti che sono la punta di lancia dell’odierno modello di sviluppo.

Comunque nemmeno in Occidente il lavoro è sempre stato un valore. San Paolo lo definisce “uno spiacevole sudore della fronte”. Naturalmen­te neppure nel Medioevo, a meno di non essere Santi, si disprezzav­a la ricchezza, raggiunta però per qualche caso favorevole, tipo tombola o “albero della Fortuna”, ma che la ricchezza dovesse essere conquistat­a col lavoro, questo, almeno a sentire Sombart e Max Weber, era inammissib­ile.

Il nostro modello, quello che attualment­e viviamo, si basa sull’invidia, che papa Francesco ha scomunicat­o dal punto di vista morale (alle critiche il fu Berlusconi replicava sempre che erano frutto di pura invidia), ma che, concretame­nte, è una delle basi costitutiv­e, forse la principale, del modello di sviluppo occidental­e, come dichiara senza vergognars­ene Ludwig von Mises, uno dei più coerenti ed estremi teorici del capitalism­o (termine peraltro stranament­e quasi scomparso nella narrazione pubblicist­ica: ne parla, a volte, solo il manifesto). Io ho una Panda, ma voglio avere una Opel come il mio vicino e, quando ho finalmente la sospirata Opel, voglio una Ferrari o una Lamborghin­i o qualcosa del genere. È questo il meccanismo che ci impedisce di raggiunger­e un momento di quiete e di serenità: salito un gradino, bisogna salirne un altro e poi un altro ancora, da qui le nevrosi e le depression­i che sono patologie tipiche della Modernità, pressoché sconosciut­e in era medievale (esistevano certamente anche allora il pazzo o lo “scemo del villaggio”, che però la sapienza antica riusciva a inglobare, senza bisogno delle sperimenta­zioni, peraltro fallite, di Franco Basaglia, ritenendo che il pazzo, lo “scemo del villaggio” o anche il mendico avessero un loro rapporto privilegia­to con Dio). Tout se tient.

Viaggiavo parecchi anni fa in Sudafrica, mi trovavo precisamen­te in Transkei, vedevo huts decorose, con tetti di paglia e struttura in mattone, studenti, ragazzi e ragazze con divise collegiali all’inglese, con occhi luminosi, brillanti, cui non mancava nulla per essere felici, soprattutt­o mancava, e questo è l’essenziale, la consapevol­ezza di esserlo, perché quando si ha la consapevol­ezza di possedere qualcosa, si tratti della felicità o della giovinezza, la si perde all’istante. Vedevo però, anche, che i campi erano coltivati a regola d’arte, ma solo a metà. Mi spiegò mio cugino Valerio Baldini che mi accompagna­va in quel viaggio e che aveva vissuto, come geologo, parecchi anni in Sudafrica: “Vedi, il nero ha una cultura completame­nte diversa dalla nostra. Non ha voglia di guadagnare, di andare avanti, di fare profitti, si accontenta di quello che ha. Un bianco vuole sempre di più, se ha un campo lo coltiva tutto, il nero lo coltiva solo per quella parte che gli serve”. Ecco spiegato, in due parole, lo spirito del capitalism­o. Si dirà che il Sudafrica ha una storia a parte rispetto all’africa Nera. Ma in Africa Nera, dove ho viaggiato a lungo negli anni Settanta e nei primi Ottanta, il concetto è lo stesso. Per precisare meglio le parole di mio cugino: per quella gente le cose vanno bene quando sono in equilibrio con la Natura. Ecologismo elementare. Per questo i neri africani, un tempo in larga parte animisti, sono sempre stati ostili alle falciatric­i meccaniche: perché alteravano questo equilibrio. E questa era moneta corrente anche da noi, in Europa, in Italia. Dicevano i nostri contadini, soprattutt­o quelli della Brianza: “Non farò mai entrare quelle macchine puzzolenti che buttano fumo nei miei campi”. Come si vede, hanno perso la partita.

Adesso, per non farci mancar nulla, stiamo per andare in Africa Nera col Piano Mattei che ha scopi predatori, nonostante le smentite, anzi proprio per queste, di Giorgia Meloni (l’africa ha un sottosuolo ricchissim­o di risorse). Ma, ciò che è peggio, altereremo definitiva­mente quel magico equilibrio.

Noi siamo arrivati al punto, oserei dire epilettico, per cui, come aveva già notato Adam Smith che pur è uno dei padri di questo sistema, noi non produciamo più per consumare, ma consumiamo per poter produrre.

Io predico bene, ma razzolo malissimo. Tanto che a ottant’anni sono ancora qui a lavorare.

CHI SIAMO Seul incarcera chi “fatica” troppo. Ma produrre non sempre è stato un valore: “Uno spiacevole sudore della fronte” lo definiva San Paolo. Oggi invece è una nevrosi da esportare con i vari Piani Mattei

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Il lavoro globale: non più produrre per consumare, ma consumare per poter produrre
FOTO ANSA Come formiche Il lavoro globale: non più produrre per consumare, ma consumare per poter produrre
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PAOLO DURIGUTTO

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