Il Fatto Quotidiano

Meloni-salvini, la guerra per i fondi alle autostrade

Alla rete servono altri 20 miliardi di investimen­ti pubblici e il leghista vuol rivedere le regole. Chigi vuole un colosso nazionale

- » Carlo Di Foggia

La partita è complessa e finora s’è giocata sottotracc­ia: in ballo ci sono miliardi e un pezzo di economia del Paese. Come al solito Palazzo Chigi e il ministro delle Infrastrut­ture non la vedono allo stesso modo.

Al dicastero di Salvini si studia infatti una riforma delle concession­i autostrada­li con l’obiettivo, teorico, di riequilibr­are i rapporti di forza a favore dello Stato, ma soprattutt­o per risolvere un grosso problema: servono più di 20 miliardi per coprire il fabbisogno reale di investimen­ti della rete italiana, gravata da oltre trent’anni di gestione privata senza controllo, soldi che i concession­ari non vogliono mettere riducendo i loro margini. Se si riesce a risolvere questa situazione, si potrà passare a ridisegnar­e l’intero sistema per evitare (forse) di ritrovarsi in futuro messi come oggi.

a ttuali parlano di circa 40 miliardi di investimen­ti necessari sulla rete: solo poco più della metà è però finanziata nei

Piani economico-finanziari (Pef) dei concession­ari. Perché questa differenza? Il grosso dipende da una sottostima iniziale, cui s’è aggiunto l’aumento dei prezzi e le linee guida varate dopo il crollo del ponte Morandi, che impongono pesanti rifaciment­i delle opere d’arte. Non è un mistero che buona parte della rete italiana sia a fine vita: va prolungata o rifatta. A questo si devono aggiungere gli investimen­ti per potenziare la rete, che i concession­ari ritengono in molti punti vicina alla saturazion­e.

Prendiamo il caso di Autostrade per l’italia (Aspi), oggi controllat­a da Cassa depositi insieme ai fondi Blackstone e Macquarie che hanno acquisito la concession­e dai Benetton a peso d’oro per chiudere la vicenda Morandi: il fabbisogno di investimen­ti stimato per Aspi – che gestisce 3 mila km di tratte, la metà della rete – è di 20 miliardi, ma nel Pef firmato nel 2020 per chiudere la guerra coi Benetton ce ne sono solo 14 (peraltro i lavori proseguono a rilento). Aumentarli è incompatib­ile con la pretesa dei fondi di spremere dividendi come e più dei Benetton grazie ai patti parasocial­i firmati con Cdp (il 75% degli utili distribuit­i è l’ultimo compromess­o trovato).

L’alternativ­a sarebbe prolungare la durata delle concession­i e far salire i pedaggi: la prima strada è complicata dalla contrariet­à della Commission­e Ue; agire solo sui pedaggi significhe­rebbe farli esplodere, opzione politicame­nte insostenib­ile per qualunque governo. L’idea che piace a Salvini è questa: i fondi mancanti per gli investimen­ti li mette lo Stato, incassando la remunerazi­one dalle tariffe in un arco di tempo che può superare la durata delle concession­i, senza così dover far salire i pedaggi alle stelle. Insomma, un fondo infrastrut­turale pubblico che non ha fretta, né l’esigenza di fare margini a doppia cifra.

Ammesso che ci si riesca, resta il problema di un sistema comunque poco sostenibil­e che rende difficile realizzare gli investimen­ti o politiche omogenee. L’ipotesi sponsorizz­ata dal ministro è che in futuro sarà lo Stato a incassare i pedaggi, girando ai concession­ari un canone per la gestione delle tratte. A loro resteranno investimen­ti e manutenzio­ne, remunerati da una quota parte dei pedaggi calcolata sull’infrastrut­tura: più alta se più complessa (ad esempio con molti viadotti) minore se in pianura. Un sistema del genere permettere­bbe al concedente, cioè lo Stato, di poter gestire i flussi sulla rete, una leva che oggi non ha e che segue di fatto la sola convenienz­a economica (dove le tariffe sono più basse). È chiaro che un sistema del genere permettere­bbe di avere una perequazio­ne tra tratte diverse che hanno tariffe diverse perché calcolate su spese e ammortamen­ti. L’esempio classico è la A4 Milano-brescia che, pur avendo un flusso di traffico molto elevato, ha tariffe molto più basse della parallela Brebemi, che è semivuota ma ha costi elevati da ammortizza­re. Insomma, in prospettiv­a tariffe più omogenee (o un’unica tariffa) a livello nazionale.

Uno schema del genere non può toccare le concession­i in essere, servirebbe­ro indennizzi miliardari ai signori del casello. L’ipotesi percorribi­le è di procedere così alla scadenza delle concession­i: in buona parte questo accadrà entro il 2028. Verrebbero rimesse a gara, magari riducendo la dimensione, in modo da ritrovarsi concession­ari più piccoli, certo non i grandi fondi esteri.

LE STIME

IL PROBLEMA VERO in questo scenario è Autostrade, la cui concession­e scade nel 2038. I fondi azionisti sono sul piede di guerra, Palazzo Chigi non pare convinta dell’idea di Salvini e ancor meno Fratelli d’italia: gli uomini più vicini alla premier, poi, coltivano l’idea di una maxi-fusione tra Aspi e Gavio, secondo operatore con 1.400 km di tratte gestite, che però non se la passa bene. L’idea è caldeggiat­a dall’advisor di Gavio, la banca Jp Morgan, guidata in Europa dall’ex ministro Vittorio Grilli, lo stesso che ha già convinto il governo ad accettare l’assurda vendita della rete Tim al fondo statuniten­se Kkr.

In teoria l’operazione non è in antitesi con la riforma delle concession­i. Su tutto però pende la Corte di Giustizia Ue, attivata dal Tar Lazio dopo un ricorso dell’adusbef, che deve decidere se la concession­e di Aspi andava messa a gara e non offerta direttamen­te a Cdp e soci come han fatto i governi Conte e Draghi. Se lo Stato dovesse perdere, al netto della figuraccia, si aprirebbe un contenzios­o miliardari­o, rendendo la riforma ancora più urgente: un incubo per Meloni, un po’ meno per Salvini.

L’IDEA PEDAGGI AL MINISTERO E GESTIONE AI PRIVATI

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FOTO LAPRESSE I signori del casello Salvini. Il Mit studia una riforma delle concession­i

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