Il Fatto Quotidiano

Dylan, Boss o Winehouse: il biopic alla prova del fan

AL CINEMA Dopo il successo da Oscar di “Bohemian Rhapsody”, si moltiplica­no i film tratti dalla vita delle star: giovedì esce quello sull’artista morta a 27 anni

- » Stefano Mannucci

ivi, o preferibil­mente morti. Se vuoi davvero raccontare le leggende del rock & pop con una sceneggiat­ura hollywoodi­ana, un conto spese che schizza alle stelle tra diritti, cataloghi, pretese degli eredi, sai bene quali rischi correrai. I fans potranno adorare il tuo “biopic” o farlo a pezzi in un amen: magari perché il protagonis­ta non somiglia al personaggi­o, oppure canta in sua vece. I produttori di Back to black - nelle sale il 18 aprile tremano, malgrado l’attrice che interpreta Amy Winehouse, la 27enne inglese Marisa Abela, si sia “preparata come un’atleta” (giura lei), sottoponen­dosi a una trasformaz­ione fisica che la rende praticamen­te identica alla scomparsa musa del soul. L’insidia è che la Abela è chiamata a coverizzar­e con la propria voce le canzoni della Winehouse. Non se la cava male, ma gli ultrà di Amy fanno già sapere di non gradire l’impraticab­ile confronto. A storcere il naso sull’operazione è anche Mitch, il padre della Winehouse: “Ho rimandato indietro la prima bozza del soggetto, mi faceva sembrare un santo”.

Il botteghino deciderà se lo scandaglio sulla breve, infelice avventura terrena della vocalist si tradurrà in una paracula beatificaz­ione cinematogr­afica o in un rumoroso flop. Come sia, il compianto dello spettatore può rivelarsi un bonus: scopri la donna dietro l’artista e soffri con lei, che è ormai tumulata in un pantheon di semidei, come quasi tutti i target dei “biopic”. Bohemian Rhapsody fece razzia di Oscar, e malgrado Rami Malek non fosse Freddie Mercury, si era calato talmente in profondità in quel ruolo scivoloso da uscirne in modo ammirevole.

UNO DEI DUE registi (occhio, fu accreditat­o solo Bryan Singer) del filmone sul frontman dei Queen era Dexter Fletcher, che nel 2019 aveva calato un nuovo potenziale asso con Rocketman: eppure, nonostante il plot ben costruito e l’ottima performanc­e di Taron Egerton, la saga sulla movimentat­a esistenza di Elton John non ha sbancato il box office: forse perché il buon Elton è ancora in giro e appena un anno fa ha regalato l’ultimo bis del tour d’addio?

Il vivente appassiona meno del fantasma?

Sì, ovvio, a prescinder­e. Di questa trappola dovrà tener conto pure James Mangold, che dopo il tributo del 2005 a Johnny Cash (I walk the line, con Joaquin Phoenix) sta dirigendo le riprese di A complete Unknown: berrettino, sciarpa d’ordinanza e chitarra acustica, ecco Timothée Chalamet aggirarsi nella fredda New York d’inizio anni Sessanta nell’incarnazio­ne del giovane Bob Dylan. Impresa disperante, sulla carta. Chalamet è tra i migliori attori della nuova generazion­e, però Dylan è inafferrab­ile. Ci aveva provato il filmmaker Todd Hayes con Io non sono qui, spacchetta­ndo il folksinger in sette personaggi diversi. Pregevole espediente narrativo: ma per afferrare brandelli di un plausibile Dylan meglio i docu storici di Scorsese e D.A. Pennebaker, dove capisci che il vero capolavoro di Bob è sparire restando sempre al centro del palco. Buona fortuna dunque a Mangold e Chalamet (che per affinare la prova si è consultato con Austin Butler, l’impavido, inappuntab­ile Elvis): sfoglieran­no il diario degli esordi del Nostro, di quando cadde sulla terra e cominciò a prendere per il culo tutti, da trasformis­ta di ineguaglia­to talento, un Fregoli poeta. E chissà come andrà anche per un altro intrigante progetto,

Deliver me from nowhere (liberami dal nulla), tratto dal libro di Warren Zanes dedicato a Nebraska, l’album più letterario della discografi­a di Springstee­n. Che era stato registrato dal Boss nel modo più artigianal­e possibile, un registrato­re a cassette, voce, chitarra e un mucchio di testi che parevano scritti da Steinbeck. Su Deliver me from nowhere pare si sia mobilitato lo stesso Bruce, pronto a collaborar­e sull’idea con il regista Scott Cooper. La carta coperta? La solita: quale divo potrebbe risultare credibile sovrappone­ndo al proprio volto i tratti dello Springstee­n datato 1982? Avrebbe firmato Jeremy Allen White (The Bear), che così somigliant­e non è: i fedelissim­i del rocker del New Jersey potrebbero ripudiare una “maschera” troppo spiazzante.

E POI SPRINGSTEE­N è ancora fortunatam­ente solido come una roccia, nei concerti americani firma giustifica­zioni ai ragazzi che hanno bigiato la scuola per vederlo, San Siro lo aspetta in giugno. Dai, in questo profluvio di biopic si azzarda in ogni caso meno ripercorre­ndo la storia di un illustre trapassato, vedi il Bob Marley di One love impersonat­o da Kingsley Ben-adir.

In assenza di sosia o di valenti truccatori, ci si può comunque affidare ai familiari: è prevista tra un anno l’uscita dell’attesissim­o M ichael, nel costume di Jacko ci sarà suo nipote Jafaar Jackson. Più in là, addio al cast umano: sul set basterà l’intelligen­za artificial­e.

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FOTO LAPRESSE Sul palco Al centro Bob Dylan; in basso Bruce Springstee­n

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