Il Fatto Quotidiano

“In gioco la libertà accademica: danno per la democrazia”

- » Carlo Di Foggia

“Quanto accaduto a Varoufakis è grave, ma è solo l’ultimo di una serie di episodi che restituisc­ono un clima pesante”. Lucio Baccaro ha un punto d’osservazio­ne privilegia­to sulla Germania: nel 2018 è succeduto a Wolfgang Streeck come direttore del Max Planck Institute per la Ricerca sociale di Colonia, uno dei più prestigios­i del Paese.

A cosa si riferisce professore?

Da mesi assistiamo a una minaccia alla libertà di pensiero e alla libertà accademica, cioè alla possibilit­à di esercitare un pensiero critico, qualcosa di impensabil­e per la tradizione accademica tedesca, se solo pensiamo a Humboldt o Kant.

Perché avviene?

Per la relazione controvers­a che c’è tra la Germania postbellic­a, con il suo pesante bagaglio storico, e Israele. Nel 2019, Merkel disse al Parlamento israeliano che il sostegno al Paese era “ragion di Stato” per la Germania. Questa si è trasformat­a in sostegno incondizio­nato, quindi nell’incapacità di distinguer­e tra la critica alle politiche israeliane e l’antisemiti­smo. Le posizioni critiche rischiano di essere bollate come antisemiti­smo e perseguite.

Non esagera?

Niente affatto, gli ultimi episodi sono indicativi. Nei giorni scorsi la filosofa Nancy Fraser avrebbe dovuto tenere la cattedra Albertus Magnus all’università di Colonia: le è stato ritirato l’invito dopo che aveva firmato un appello pro Palestina che parlava di genocidio a Gaza e invitava al boicottagg­io delle istituzion­i israeliane. Si rischia anche il posto di lavoro. È accaduto a un professore invitato del Max Plank, accusato di “discorsi d’odio” per alcuni suoi post sui social sulla guerra a Gaza.

Anche nel resto d’europa i segnali non sono positivi: manifestaz­ioni vietate, studenti criticati per le proteste... Vero, ma qui, per ovvi motivi storici, sono a un livello estremo. Qui è impensabil­e che un’università decida di boicottare le autorità israeliane. Fraser è ebrea: si vuole insegnare a un’intellettu­ale di origine ebraica come non si deve essere antisemiti.

Queste vicende non sembrano scuotere la politica e i media tedeschi.

È questo il punto. C’è un consenso di fondo su questo atteggiame­nto: dei partiti, dell’intellighe­nzia e quindi in generale delle élite. Non è assoluto, ma sufficient­e a rendere difficile il levarsi di voci critiche. Quel che avviene nel più importante Paese europeo può però influenzar­e molto anche il dibattito negli altri Paesi.

Non c’è speranza di cambiare la situazione?

Sarebbe fondamenta­le. Forse una spinta può arrivare dal fatto che questi atteggiame­nti esasperati stanno danneggian­do le università e i centri di ricerca tedeschi, che stanno perdendo autorevole­zza nel mondo. Questo rende difficile attrarre talenti, uno dei punti di forza e vanto del sistema tedesco. E poi, fino a che punto ci si può spingere nel supporto al governo israeliano a ‘tutti i costi’? Non credo si faccia un buon servizio nemmeno al popolo israeliano con questa posizione acritica.

Questo atteggiame­nto è una novità nata con l’offensiva a Gaza?

Clima pesante, trend partito in pandemia e già visto con la Russia

No, è la prosecuzio­ne di un trend partito tempo fa. Sempre più le differenze di opinione sono trasformat­e in posizioni morali e in quanto tali possono essere rigettate a priori. Un atteggiame­nto visto già con la pandemia, con posizioni estremamen­te intolleran­ti e scarsa propension­e ad avere atteggiame­nti dialoganti con l’altro. Per esempio, bisognava imporre con forza l’idea che i vaccini bloccavano il contagio anche se i dati mostravano il contrario e chi lo sosteneva veniva pesantemen­te attaccato. È successo anche con la guerra in Ucraina.

In che senso?

Anche lì c’è stata una moralizzaz­ione del discorso: se dicevi che l’invasione russa era inaccettab­ile, ma non era un fulmine a ciel sereno ma aveva una storia, finivi subito insultato come “putiniano”. Non ci si rende conto che queste cose danneggian­o pesantemen­te la democrazia.

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