Un libro che “uccide”, ma nel regime fascista il colpevole ha un solo nome: quello del Duce
In una dittatura gli scherani del tiranno sono violenti e anonimi. Uccidono o fanno uccidere sulla base di delazioni e tradimenti e ricatti, facendo leva sugli istinti peggiori della natura umana, il sostrato di un regime totalitario. E in questo suo esordio giallistico, Gian Arturo Ferrari – per lustri demiurgo editoriale di Mondadori – non dà un nome agli organizzatori del delitto provocato da un manoscritto proibito, da occultare, nella consolidata tradizione del
SIAMO NELLA MILANO
del 1936 e ci sono un commissario spione e il suo assistente volutamente sciatto (per passare inosservato). Entrambi senza nome, appunto, come se l’oblio fosse la condanna migliore per le loro attività. Il primo, il commissario, viene trovato ucciso in una villetta tenuta segreta per fare incontri riservati. Il secondo, l’assistente, scopre il cadavere e poi fa rapporto “all’uomo arrivato da Roma”, anche questi anonimo. Chi ha ammazzato a colpi di pistola l’occhiuto servo del regime mussoliniano? Il commissario non prendeva appunti, né teneva elenchi dei suoi informatori, in particolare quelli “speciali”. Negli ultimi tempi vigilava su Luigi Bassetti, antifascista e direttore editoriale della Pietromarchi, “una delle principali case editrici italiane”. Bassetti girava da un po’ con una borsa a tracolla, da cui non si separava mai. Dentro, un manoscritto “esplosivo” contro il Duce sul delitto Matteotti (quest’anno il centenario) e vergato da un generale testimone dei fatti. A tradire Bassetti è stata la sua segretaria ricattata, Donatella Modiano. I due si erano innamorati e avevano una storia. Poi il commissario ha organizzato lo scippo della borsa e i tre sicari assoldati hanno fatto fuori Bassetti, spingendolo sotto un tram che passava. Infine, è lo stesso poliziotto a morire. L’epilogo è da giallo. Ma un giallo che apre uno “squarcio di realtà”, per citare Leonardo Sciascia, sul Terrore fascista nel Ventennio.