“Il gusto delle cose” e il buon profumo arriva pure in sala
Il gusto delle cose di Tran Anh Hung
MAmore e morte, destino e calderone nel bel film francese
etti una sera a (s)cena. Ghiottoni di tutto il mondo, stringetevi a tavola: Il gusto delle cose è il vostro film. La sinestesia è forzata: al netto di qualche sfrigolio sonoro, il senso è solo quello, la vista, sicché toccherà a voi associare gusto e olfatto alle magnifiche pietanze ammannite da Tran Anh Hung. Celebrato per l’opera prima Il profumo della papaia verde di cui ricorre il trentennale e il Leone d’oro di Venezia 1995 Cyclo, il regista vietnamita trapiantato in Francia reitera la cifra sensoriale, estetica ed estatica mettendosi ai fornelli per – titolo originale - La passion de Dodin Bouffant, l’eponimo gourmet incarnato da Benoît Magimel cui si affianca la cuciniera Juliette Binoche, soave Eugénie.
SIAMO OLTRALPE, alla metà dell’ottocento, la donna lavora da vent’anni per il famoso gastronomo, alimentando una passione affettuosa e pudica, non suggellata, per volontà di Eugénie, dal matrimonio. Allorché la sua salute s’incrinerà, i cambiamenti più rilevanti si avranno ai fornelli: chi cucina per chi? Nella cottura a bassa temperatura di amorosi sensi, Tran Ahn Hung si appoggia al libro dello svizzero Marcel Rouff La vie et la passion de Dodin-bouffant (1924) per portare sullo schermo una leggenda del palato, il Napoleone del gusto, cui lo strepitoso Magimel, due volte (De son vivant e Pacifiction) migliore attore ai César negli ultimi tre anni, dona respiro affannato e carnalità senza soluzione di continuità tra animale e umano, pietanza e cuoco. Bene, ma che si mangia? Se Masterchef non esaurisce il vostro appetito audiovisivo, eccovi serviti: pot-au-feu, un bollito contadino del nord della Francia, omelette norvegese e un sacrosanto Clos-vougeot a innaffiare. A convalidare cotanto patrimonio culinario lo chef Pierre Gagnaire, le simmetrie tra forchetta e coltello si sprecano: accanto agli ovvi Papaia verde e, complice Binoche, Chocolat, il bouquet sentimentale e il retrogusto spirituale de Il gusto delle cose non possono non evocare Il pranzo di Babette del danese Gabriel Axel, tratto da Karen Blixen e Oscar al film straniero nel 1988, con cui il sommo Dodin rivaleggia nelle succulenti, raffinate ricette – ma le cailles en sarcophage non le batte… Cinema de papà à la table, questo apparecchia Tran Anh Hung, sicché il rischio più che della grande abbuffata è della modesta stucchevolezza, laddove le buone maniere eccedono il necessaire cinematografico, i manicaretti richiamano l’oleografia e l’acquolina ha la meglio sulla cinefilia. Viva la degustazione, maggior gloria per il convivio: se i due cuori – Magimel e Binoche, già coppia nella vita – e una cucina inducono qualche risolino condiscendente, il piatto è salvo, ché l’(auto)ironia non difetta, la sinestetica visione non è scipita. Il gastronomo Dodin sa il fatto suo, Eugénie pure e non capita così spesso di vivere un’esperienza stellata al cinema. Amore e morte, destino e calderone, Il gusto delle cose ha un solo peccato originale: essere stato preferito dalla Francia a Anatomia di una caduta di Justine Triet, rea di dichiarazioni anti-macron sul palco di Cannes 2023, nella corsa all’oscar per il film internazionale. Vabbè, il desco è tratto: mangiamoci sopra.