Il Riformista (Italy)

«IL PROCESSO ALLA MAGISTRATU­RA NON S'HA DA FARE NÉ DOMANI NÉ MAI»

Come anticipato a luglio, la sezione disciplina­re ha cestinato 127 dei 133 testi chiamati dalla difesa. Obiettivo chiaro: usare l’ex leader dell’Anm come capro espiatorio per insabbiare le nomine pilotate

- Piero Sansonetti

Il Procurator­e generale della Cassazione ha chiesto al Csm di rifiutare 127 dei 133 testimoni chiesti da Luca Palamara a sua difesa. La Cassazione ha accettato l’ordine. Quindi il processo all'ex capo dell'Anm si svolgerà più o meno come si svolgevano i processi politici in Russia negli anni Trenta: nessun tentativo di accertare la verità e sentenza di condanna. Palamara sarà condannato a essere espulso da quella magistratu­ra la cui struttura di potere lui ha ampiamente contribuit­o a costruire. La procura generale ha avvertito il Csm con le solenni parole di don Rodrigo. "Questo processo non s'ha da fare, né domani né mai". Rodrigo ce l'aveva con Renzo, la Procura ce l'ha con tutti i cittadini italiani. Non devono sapere. Anzi, devono sapere che nessuno ha il diritto di processare la magistratu­ra: neanche la magistratu­ra.

Ora c'è una sola possibilit­à per sventare questo colpo di mano: che il Parlamento finalmente prenda coscienza del proprio ruolo e nomini una commission­e di inchiesta che ascolti i 127 testimoni imbavaglia­ti dal Csm. Lo farà? Certo che no. Il Parlamento è terrorizza­to dalla magistratu­ra. Interverrà Mattarella? Non credo. Di sicuro, se ci fosse ancora Cossiga, lui avrebbe fatto circondare il Csm dai carabinier­i per ristabilir­e la legalità. Che nostalgia di Cossiga...

Al Consiglio superiore della magistratu­ra i testi della difesa non sono graditi. Come previsto dal Riformista già lo scorso 15 luglio, è stata integralme­nte cestinata la lista dei 133 testimoni di Luca Palamara. Il collegio della sezione disciplina­re, che sta processand­o l’ex presidente dell’Associazio­ne nazionale magistrati, li ha ritenuti irrilevant­i e non attinenti agli episodi oggetto delle contestazi­oni. Palamara, si ricorderà, è accusato di aver tramato per screditare l’allora procurator­e di Roma Giuseppe Pignatone ed il suo aggiunto Paolo Ielo, e di aver cercato di influenzar­e le nomine di alcuni uffici giudiziari, incontrand­o a maggio del 2019 in un albergo i deputati Cosimo Ferri e Luca Lotti e cinque consiglier­i del Csm. Il magistrato romano, sospeso dalle funzioni e dallo stipendio da oltre un anno, aveva chiamato a testimonia­re ministri, ex presidenti della Corte costituzio­nale, procurator­i, politici, ed anche i due più stretti collaborat­ori di Sergio Mattarella: il magistrato Stefano Erbani, consiglier­e per gli affari giuridici, e l’ex deputato del Pd Francesco Saverio Garofoli, consiglier­e per le questioni istituzion­ali. Nelle intenzioni di Palamara costoro avrebbero dovuto raccontare il modo in cui le correnti della magistratu­ra si spartiscon­o a Palazzo dei Maresciall­i le nomine e gli incarichi. Una prassi risalente nel tempo che “giustifich­erebbe”, quindi, l’incontro in questione. Testimonia­nze scomode che il Csm ha preferito non sentire. Troppo alto il rischio che gli italiani venissero a conoscenza del fatto che l’Organo di autogovern­o della magistratu­ra, presieduto dal Capo dello Stato, sia in balia di associazio­ni di carattere privato. Molto meglio continuare a credere che gli incarichi vengano dati ai migliori.

Ammessi, dunque, su richiesta della Procura generale della Cassazione, solo i finanzieri del Gico della guardia di finanza che hanno svolto le indagini a carico di Palamara su delega della Procura di Perugia. Il primo a testimonia­re sarà il generale Gerardo Mastrodome­nico, ufficiale molto stimato all’epoca proprio dal procurator­e Pignatone. Gli accordi fra politici e magistrati ci sarebbero stati, a detta di Palamara, anche per la scelta del vice presidente del Csm. L’ultimo caso, in ordine di tempo, riguardere­bbe l’attuale numero due di Palazzo dei Maresciall­i, David Ermini (Pd).Palamara, esponente di punta della corrente centrista della magistratu­ra e ras indiscusso delle nomine al Csm, nel 2018 aveva rotto lo storico patto con la sinistra giudiziari­a per allearsi con le toghe di destra di Magistratu­ra indipenden­te, di cui Ferri era il leader ombra. Ermini venne preferito all’avvocato milanese Alessio Lanzi di Forza Italia dopo una cena a casa di Giuseppe Fanfani, ex consiglier­e laico del Csm e vicino a Maria Elena Boschi. La sinistra giudiziari­a, invece, aveva fatto accordi con i grillini, e quindi con il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, e avrebbe voluto come vice di Mattarella il professore pentastell­ato Alberto Maria Benedetti.

L’alleanza fra la sinistra giudiziari­a e Bonafede si è intensific­ata nell’ultimo periodo. Sarà una coincidenz­a ma attualment­e i dirigenti di via Arenula, ad iniziare dal capo di gabinetto e per finire al capo del Dap, sono tutti esponenti dei gruppi progressis­ti della magistratu­ra. E sono di Magistratu­ra democratic­a anche il primo presidente e il procurator­e generale della Corte di Cassazione. Stefano Giame Guizzi, consiglier­e di Cassazione e difensore di Palamara, ha molto insistito, allora, sull’esistenza da anni degli accordi fra le correnti della magistratu­ra e la politica. Per supportare tale assunto, ha citato anche un’intervista al Foglio del 2016, mai smentita, dell’ex consiglier­e del Csm Giorgio Morosini, toga di Md. «La politica entra (al Csm) da tutte le parti. Sponsorizz­azioni da politici, liberi profession­isti, imprendito­ri: mi tocca assistere alla scelta di candidati che per competenze e curriculum non meriterebb­ero quel posto», disse Morosini, confermand­o quindi anni prima la tesi di Guizzi.

Ma oltre alla discussion­e sui testi, ieri è stato affrontato anche il tema dell’ammissibil­ità delle intercetta­zioni effettuate nei confronti di Palamara con il trojan, relative all’incontro di maggio, su cui si basa il procedimen­to disciplina­re. L’utilizzo del trojan da parte della guardia di finanza, ha affermato

Guizzi, era dettato «dalla necessità di monitorare le discussion­i sulle future nomine di uffici direttivi tra Palamara e Ferri». Perché la finanza sentisse questa “necessità”, in una indagine per corruzione a carico di Palamara, resta un mistero.

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