Qualcuno si ricorda di Porta Pia?
L’instabilità
Proprio oggi, l’Italia è tornata a inseguire le orme
di un inesistente “nemico straniero” e a volgersi con fiducia e condiscendenza verso veri avversari strategici come la Cina
e la Russia
A partire dalla crisi di identità e di fiducia in se stesso che il Paese sta attraversando mi sarei aspettato che si aprisse un dibattito in Parlamento, nelle università, in tv a partire da un secolo e mezzo di storia. Invece nulla. È stata in pratica cancellata ogni celebrazione
Acentocinquant’anni dal 1870, quest’anno con il 20 settembre celebriamo non una, ma due ricorrenze: da una parte la fine dello Stato pontificio, che a lungo, al centro dell’Italia, era stato uno dei principali ostacoli a qualsiasi progetto di unità e, insieme, il completamento dell’Unità d’Italia con la presa di Roma e la sua elezione a capitale.
Due argomenti, due questioni storiche strettamente connesse, che ci spingono a interrogarci sul nostro recente e breve passato nazionale, anche per meglio comprendere i problemi del nostro difficile presente e soprattutto le prospettive del nostro problematico futuro. Sulla prima questione, mi pare di potere dire che essa sia stata se non chiusa, certamente in gran parte superata dal Concilio Vaticano II e dagli sviluppi del cattolicesimo post conciliare, che, voltando le spalle alla Chiesa del Sillabo, ha sempre più esplicitamente riconosciuto come la breccia di Porta Pia abbia liberato anche la religione cattolica dai condizionamenti di un potere temporale, che la allontanava dai suoi compiti spirituali: riconoscimento non da poco ai nostri padri fondatori e tardivo, anche se parziale, riconoscimento pure alle ragioni di Lutero.
Se questo non bastasse, è difficile per chiunque ignorare il forte ridimensionamento che le pretese di ingerenza clericale nella vita politica e legislativa dello Stato hanno subito con le sconfitte nei referendum del 1974 sul divorzio e del 1981 sull’interruzione volontaria della gravidanza. E sarebbe ingiusto e superficiale sottovalutare l’orientamento complessivo dell’attuale pontificato che, senza attenuare i principi della dottrina, sembra aver assunto un atteggiamento assai diverso nei rapporti con lo Stato e la sua legislazione da quello assunto della Chiesa di Ratzinger e del Cardinale Ruini sulla fecondazione assistita, sulla ricerca scientifica e sul riconoscimento delle unioni civili.
Assai più importante è la seconda questione storica connessa alla ricorrenza, quella che interroga direttamente lo Stato italiano e l’Italia come comunità politica e come costruzione tuttora incompiuta. Se infatti nella vita delle nazioni un secolo e mezzo è un tempo assai breve, esso è tuttavia sufficiente per guardare indietro alla nostra storia e cercare di capire le nostre debolezze e le nostre potenzialità, le nostre possibilità e i nostri rischi.
Io non sono uno spregiatore del Risorgimento. Al contrario sono un ammiratore di quanti ne sono stati i protagonisti e ho in orrore chiunque, cancellando Mazzini, Garibaldi, le quattro giornate di Milano, la Repubblica Romana del 1849, la spedizione dei Mille, pretenda di ridurlo solo a una guerra di conquista condotta della monarchia sabauda. Non è stato così, è stato anche il frutto di una forte rivendicazione nazionale che, dal nord al sud, coinvolse la maggioranza della borghesia italiana, soprattutto nelle sue generazioni più giovani. Tuttavia è indubbio che fra i grandi stati europei arrivammo a conquistare la nostra unità nazionale con grande ritardo, creando uno stato molto debole, alle prese con una società frammentata e divisa, e con una borghesia prevalentemente agraria, circondata da plebi fortemente influenzate da un clero, che a lungo rifiutò di riconoscere la legittimità del nuovo Stato.
Confesso che mi sarei aspettato che, a partire dall’indubbia crisi di identità e fiducia in se stessa che l’Italia sta attualmente attraversando, si aprisse un dibattito in Parlamento e, se non in Parlamento, nelle Università, nelle televisioni, sui maggiori quotidiani su questo primo secolo e mezzo di storia italiana. Un dibattito che mettesse a confronto la nostra attuale crisi con le numerose crisi del passato: dall’autoritarismo di Crispi ai colpi di cannone contro le plebi di Pelloux e Bava Beccaris, dall’illusione di affermare la nazione con avventure coloniali fino al colpo di stato fascista che sospese e di fatto abrogò lo Statuto albertino. Queste crisi interruppero ripetutamente negli ultimi trenta anni dell’ottocento e nei primi venti del novecento lunghi periodi di stabilità e, anche – penso a Giolitti, a Zanardelli, al giolittismo - positivi periodi di riformismo e di tentativi di allargamento della base sociale dello Stato fino al dialogo con il nascente partito socialista e al suffragio universale. Quali sono le ragioni di questa instabilità democratica delle nostre istituzioni, che in forme diverse si è ripetuta, dopo un lungo periodo di stabilità, nella seconda parte della nostra storia, quella che dalla fine della seconda guerra mondiale giunge fino a noi, prima con la crisi dei partiti antifascisti
(i cosiddetti partiti dell’arco costituzionale) e poi con la crisi delle forze politiche che li avevano sostituiti nei primi anni ‘90: Berlusconi, Forza Italia, Popolo della Libertà, Democratici di sinistra e Partito democratico? Una risposta a questa domanda non può in nessun modo essere trovata in ragioni di carattere antropologico, in base a una supposta diversità della società italiana dalle altre società europee. Questo è un Paese che ha avuto seicento mila morti durante la prima guerra mondiale e ha retto una prova improba e durissima in quei quattro anni, a cui era del tutto impreparato. È un Paese che ha avuto l’energia, la forza e la capacità di realizzare, dagli anni Cinquanta agli anni Settanta, nell’arco di una generazione, una trasformazione del sistema economico da prevalentemente agricolo a industriale, che altri paesi hanno compiuto nell’arco di uno o due secoli. Basti pensare alle migrazioni interne, che si sono sommate a quelle all’estero e che hanno trasferito il 40% della popolazione dall’agricoltura all’industria, dal mezzogiorno al settentrione, dalla campagna alle città. E allora forse la risposta va cercata altrove: nella cultura della classe dirigente, non solo quella politica e nell’incapacità di proseguire lungo la linea più vitale e più profetica del nostro pensiero risorgimentale. Quello europeo e cosmopolitico, liberale e federalista. L’Italia è uno Stato giovane, che nelle fasi di crisi si è rifugiata in un nazionalismo reazionario e vittimistico, venato di patetiche ambizioni coloniali e imperiali o di ossessive illusioni autarchiche. È stato chiaro alla fine dell’800, dopo la I Guerra Mondiale con il fascismo, e anche in questa crisi in cui vengono al pettine, sotto la spinta di fenomeni economici, demografici e tecnologici di portata epocale, tutti i nodi legati alla debolezza e all’insufficienza degli stati nazione, a partire da quelli più piccoli e precari. Il nazionalismo in Italia non è stato l’effetto della incompletezza del processo unitario – anche non solo per le crescenti differenze tra Nord e Sud – ma è stato la causa dell’arretratezza e dei ritardi con cui l’Italia ha finito per misurarsi con le sfide della politica e dell’economia contemporanea.
Lo stesso deve dirsi dell’altra faccia della medaglia nazionalista, che è quella anti-europea e ostile a qualunque forma di integrazione politica e economica internazionale. Proprio oggi, a 150 anni dal completamento dell’Unità, l’Italia è tornata a inseguire le orme di un inesistente “nemico straniero” (in genere europeo o occidentale) e a volgersi con fiducia e condiscendenza verso veri avversari strategici, come la Cina e la Russia.
Un’altra ragione politica dei ritardi italiani è la sistematica scelta di soluzioni istituzionali dell’ordinamento politico, che premiano i cambiamenti frequenti di alleanze e il trasformismo anziché la governabilità di medio e lungo periodo, la ricerca di un consenso immediato intorno a interventi improvvisati di carattere elettorale e clientelare, a scapito di incisivi investimenti intorno a progetti efficaci di riforma e di sviluppo.
Forse la continuità di queste debolezze strutturali della nostra cultura politica e della nostra democrazia parlamentare in momenti diversi della nostra storia doveva spingerci a risposte meno autoassolutorie delle responsabilità nazionali. Intendiamoci, esistono anche crisi epocali che investono trasversalmente il mondo occidentale e quella che stiamo vivendo è certo una di esse. Ma è del tutto evidente che il nostro sistema politico non ha strumenti di resistenza e di stabilità e non ha gli anticorpi di cui dispongono altri stati democratici d’Europa o d’oltre Atlantico.
Quale migliore occasione, per affrontare un simile dibattito, di quella offerta dalla ricorrenza dei 150 anni della nostra storia unitaria? E invece nessun dibattito, nessun interrogativo. E per essere sicuri che nessuno li ponesse, è stata in pratica cancellata la ricorrenza, silenziando ogni celebrazione.