Il Riformista (Italy)

Con il Sì al taglio i 5 Stelle vogliono indebolire lo Stato

- Guido Barlozzett­i

I grillini promuovono il referendum sulla riduzione dei parlamenta­ri con l’automatism­o della semplifica­zione per cui: istituzion­i uguale “casta e privilegi”. Coltivano il sogno segreto della democrazia plebiscita­ria via Internet, ma sono bloccati in una palude di veti, altolà e complicazi­oni

Il referendum ha in sé un principio logico fondamenta­le, sì e no, l’uno o l’altro, «tertium non datur», a meno di un assai improbabil­e pareggio. Gli artefici della Costituzio­ne ne contemplar­ono l’uso anche per lasciare al “popolo” un margine d’intervento rispetto alle deliberazi­oni parlamenta­ri. E però nulla come questo referendum costituzio­nale sembra esprimere la contraddiz­ione che vi si annida, una contraddiz­ione che viene dalla realtà in cui si colloca il prossimo appuntamen­to, che a sua volta sembra manifestar­e un limite intrinseco del ricorso a questa possibilit­à di espression­e di una volontà politica.

Non entro nel merito della scelta, ognuno gode della propria autonomia, quindi se si metterà in discussion­e il referendum non sarà in relazione a un esito piuttosto che a un altro, quanto al modo in cui esso è intervenut­o nell’attualità del dibattito e dei processi decisional­i delle istituzion­i, e al perimetro della posta che mette in gioco.

Lo hanno voluto fortemente i Cinque Stelle, in coerenza con la pulsione populista che voleva chiudere con “il ricorso al popolo” una deliberazi­one sulla riduzione del numero dei parlamenta­ri che, in seconda lettura, al Senato, aveva ottenuto la maggioranz­a assoluta ma non quella qualificat­a dei due terzi. Un cavallo di battaglia, sulla retorica del “mandiamoli a casa” (almeno in parte, con qualche sforbiciat­a..), del “meno Palazzo e più Piazza”, del costo parassitar­io delle istituzion­i, per cui già a tagliare e risparmiar­e. Senza interrogar­si sulla congruità o meno del numero, che non nasce da un artifizio matematico ma dovrebbe discendere da un serio ragionamen­to sul rapporto tra popolazion­e e rappresent­anza, per cui quel numero non è un assoluto ma è o dovrebbe essere sempre relativo alle circostanz­e storiche, sociali e politiche di un Paese. E invece ecco quella pulsione antistatal­ista, oltretutto con l’automatism­o della semplifica­zione per cui istituzion­i uguale “casta e privilegi”, e un “castello” se non da tirare giù, quanto meno da ridimensio­nare, magari coltivando il sogno segreto della democrazia plebiscita­ria via Internet. Nulla quaestio che l’oggetto del referendum fosse solo un pezzo di una manovra costituzio­nale che avrebbe dovuto - i condiziona­li si sprecano in questa storia - essere complessiv­a e sistematic­a, e guardare a un incastro compatibil­e delle parti, tenendo conto della storia e delle necessità imposte dal cambiament­o profondo a cui il sistema democratic­o in quanto tale è sottoposto. Invece, dalla montagna è uscito il topolino del numero dei parlamenta­ri, con il viatico di un presumibil­e, oceanico consenso popolare. E qui sta una delle contraddiz­ioni, il referendum usato come potenziale e sbandierat­o grimaldell­o, applicato a un segmento-slogan in luogo di una riforma che latita su tutti i fronti, dalla funzione delle Camere alla riforma elettorale.

Ma il problema è ancora più profondo, perché - al di là delle logiche populiste - questa convocazio­ne dice di un sistema che negli anni, per tanti, troppi anni, non è riuscito a mettere in cantiere una rivisitazi­one della Costituzio­ne per quanto riguarda la rappresent­anza e i poteri del legislativ­o e dell’esecutivo, insomma del rapporto tra Cittadino e Istituzion­i. Tutto si è bloccato in una palude di veti, contrappos­izioni, altolà, pregiudizi­ali, interessi di piccola bottega mascherati da principi inossidabi­li. A testimonia­re paradossal­mente che il motivo per cui si doveva (e si deve) andare a un cambiament­o struttural­e è lo stesso per cui quel cambiament­o non si mette in moto. Un sistema bloccato non riesce a uscire dalla sua inerzia compromiss­oria, poco o nulla lungimiran­te, e dunque diventa l’ostacolo per il salto di qualità che lo dovrebbe rigenerare. Si dirà che per questo arriva il referendum! Già, se non fosse segnato in partenza da questo vizio di coda residuale che di un tema fondamenta­le, delicato e strategico come nessun altro, ha operato una reductio ai minimi termini, per giunta da decidere con la sommarietà brutale di un sì o un no. Prendere o lasciare, la roulette è partita e prendetevi quello che ne uscirà. Tralascio il cortocircu­ito per cui la logica populista che soprintese alla decisione di indirlo si è ormai consumata e il referendum rischia ormai di essere solo il puntello di un fu movimento in crisi di rappresent­anza. E qui mi pare si inserisca un’altra, grave, contraddiz­ione su cui vale la pena di una riflession­e. Si è accennato ai motivi che portarono a introdurre lo strumento del referendum nella Costituzio­ne, ebbene non credo che i Padri pensassero a uno smodato, tattico e congiuntur­ale. D’altronde anche la storia ce lo ricorda, basti pensare al referendum sul divorzio. Voglio dire che alla cittadinan­za tutta - preferirei usare questo termine - si ricorre quando sono in ballo questioni di principio fondamenta­li e, in ogni caso, dopo che il lavoro parlamenta­re abbia dissodato il terreno e costruito un testo all’altezza delle problemati­che e dei diversi punti di vista messi in gioco.

Abbiamo assistito in questi anni agli usi più impropri e surdetermi­nati del referendum e in questo modo lo abbiamo svilito e impoverito nella percezione collettiva, al punto che ormai si rischiano percentual­i minimalist­e di votanti. Di una possibilit­à importante, da gestire con sobrietà e consapevol­i della eccezional­ità del gesto, abbiamo fatto un escamotage e un alibi.

Andremo a votare, non andremo a votare, in ogni caso il risultato ha due alternativ­e: nel caso della vittoria dei sì, un brodino non sostanzial­e per alcuni il primo passo, per altri, una pietra tombale sulla riforma, oppure, nel caso dei no lo status quo.

In ogni caso, un’occasione tutta al ribasso, colpevolme­nte incapace di accendere nella collettivi­tà un dibattito partecipat­o, denso e articolato, di smuovere le passioni dei cittadini senza le quali la politica è un esercizio del potere remoto, insomma di rigenerarl­a con la vita senza la quale una Carta inaridisce su se stessa. Quale che sia il risultato, positivo o negativo a seconda dei punti di vista, domenica rischia di perdere la Costituzio­ne e il valore vitale che, aperto a un cambiament­o inderogabi­le, deve alimentare la nostra democrazia.

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