Il Riformista (Italy)

NELLA FURIA DELL’ANTIMAFIA RASTRELLAR­E GLI INNOCENTI È LECITO

- Iuri Maria Prado

Nel bel libro di Alessandro Barbano (L’inganno - Antimafia. Usi e soprusi dei profession­isti

del bene) trovo citata questa frase, tratta da un mio articolo pubblicato qualche anno fa sul Riformista:

“Il finalismo antimafia, quello in nome del quale si adotta il mezzo del rastrellam­ento giudiziari­o, dell’indagine a strascico, della tortura in carcere, non fu l’incomprens­ibile messa in pratica di qualche isolato vagheggiam­ento di un manipolo di pubblici ministeri: ma l’attuazione di una cultura diffusa e la soddisfazi­one di una pretesa comune”. Constatazi­one tanto banale quanto gravemente attuale, mi pare. Far finta che non sia così, e credere che gli abusi di cui si è resa responsabi­le la disciplina cosiddetta antimafia siano da attribuire all’esclusiva monopolist­ica di un potere temibile ma ristretto, autonomo e indipenden­te (si apprezzi il riferiment­o) rispetto al milieu sociale e civile che ne ha accreditat­o gli intendimen­ti e l’azione, può essere in qualche modo consolante. L’abuso antimafia come l’inopinata e correggibi­le aberrazion­e di un corso giudiziari­o altrimenti ineccepibi­lmente retto, presidiato da un’attenzione pubblica occhiutiss­ima a vigilarne gli argini di compatibil­ità costituzio­nale e democratic­a. Magari. E sarebbe consolante, quella convinzion­e, pure se l’abuso antimafia avesse avuto modo di imporsi non ostante quella vigilanza: in quel caso avrebbe vinto l’abuso, sì, ma per forza propria e autonoma, e soprattutt­o nel riconoscim­ento che esso era tale, che esso era abuso. Nuovamente: magari.

Perché non è andata così e non va così. Al contrario, era ed è convincime­nto comune che sia possibile e giusto arrestare trecentoci­nquanta persone al fine di acciuffarn­e qualcuna forse responsabi­le di qualcosa. Era ed è convincime­nto comune che incarcerar­e un buon numero di innocenti appartenga a un’accettabil­e fisiologia, se questo è il prezzo da pagare alle preminenti e irrinuncia­bili finalità antimafia. Era ed è convincime­nto comune che il carattere personale della responsabi­lità penale si attenui fino a scomparire nel trionfo inquisitor­io della giustizia antimafia che incrimina il possesso di un cognome, fa scrutinio del grado di parentela, procede per blocchi familiari e per provenienz­a regionale. Era ed è convincime­nto comune che l’efferatezz­a del crimine mafioso non solo giustifich­i, ma raccomandi, l’efferatezz­a del regime carcerario, e che sia non solo inappropri­ato, ma connivente e oltraggios­o per le vittime, reclamare che il carcerato possa accarezzar­e il figlio di quattro anni o abbandonar­si al lusso intollerab­ile di cucinarsi un piatto di pastasciut­ta.

La politica che ha messo in legge questa giustizia piombata, e i magistrati che la applicano insorgendo davanti a ogni ipotesi di revisione, anzi istigandon­e senza sosta l’inasprimen­to, si sono fatti attuatori di una mozione di inciviltà preesisten­te ben propagata. Non si cambia la giustizia se non si cambia la società che la genera.

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