Il Riformista (Italy)

La meccanica dei corpi Il racconto di Paolo Zardi

- Annalisa De Simone

Paolo Zardi torna a una forma narrativa che gli è congeniale, il racconto, e lo fa con una raccolta di cinque storie pubblicata da Neo Edizioni: “La meccanica dei corpi”. Cosa regola i corpi che abitiamo? E in che modi i nostri corpi, nei loro movimenti, nelle reazioni agli stimoli, nelle attrazioni che li attraversa­no o negli abusi compiuti e subiti, condiziona­no quelli degli altri? I protagonis­ti di Zardi vengono colti in un preciso istante della loro parabola, un’unità di tempo che ce li restituisc­e nel momento in cui compiono una scelta oppure vengono travolti da quella di un altro. Ne “L’era della dignità borghese”, il primo racconto dell’antologia, la protagonis­ta femminile è una ragazza immersa nella solitudine disordinat­a e nel flusso caotico di una grande città, un ambiente molto diverso dal paese minuscolo in cui è cresciuta. Il lavoro è ridotto allo spazio fisico di una scrivania, la spia s’accende sul pc ed ecco che il primo piano di varie facce, con lo sfondo di stanze striminzit­e di cui aver vergogna, compare. Di recente, Lucia non azzecca un articolo, grandi cantonate e pochi click. Come se non bastasse, su ogni dipendente s’addensa la minaccia di una percentual­e inaggirabi­le: per remunerare il capitale, la crescita dell’azienda non può essere inferiore al 15%. Un semplice numero, da cui si innescano delle conseguenz­e imprevedib­ili, e feroci, tristement­e rivelatric­i di un animo intrappola­to dalle leggi della giungla che regolano a tutt’oggi la modernità. “I forconi, la pece, i roghi e le ghigliotti­ne, le gogne; gli strangolam­enti e le croci, i pali, le pietre, sedie elettriche e camere a gas; e i plotoni d’esecuzione, la garrota, i bastoni, la ruota, i cappi, le corde. Nonostante il progresso avesse tentato di seppellire quel variegato armamentar­io, bastava frugare nelle teste per ritrovare tutti gli strumenti per la gestione dei problemi”. Lo sguardo di Zardi contiene in sé il pessimismo hobbesiano, la cupa eco di un’epigrafe plautiana, “homo homini lupus”, ma oltre alla superficie di ogni storia anche una sorta di tenera e inscalfibi­le benevolenz­a verso i suoi personaggi. Fra gli altri, il più struggente è il protagonis­ta di “Fantasmi”, un anziano sulla linea incerta dei bilanci, un padre travolto dal dolore asfissiant­e della perdita, un vedovo che tanto ha amato e poi ha visto spegnersi la propria moglie. Il passato è una trappola in cui inciampare più spesso di quanto non si voglia, un congegno micidiale pronto a riversarsi nel qui e ora attraverso un semplice foglio, oppure la forma delle montagne, tramite una foto che sbiadisce di giorno in giorno. Il passato lascia le sue impronte ovunque, reale o immaginari­o che sia. È il volo di fantasia che conduce i due protagonis­ti di “Non passa invano il tempo”, e i loro corpi immaterial­i, lungo un viaggio nei secoli addietro. La sinfonia di voci, con i loro tentativi e le cadute, i desideri disattesi e le umane speranze prosegue. “Ho un’amante”, si dice ancora incredulo il signor Bovary, mentre ripensa ai baci con Orietta. “Che cosa strana sono i baci. Nessun animale si bacia, neppure i gatti, che ci ingannano annusandos­i i nasi. Solo gli esseri umani sentono il bisogno di poggiare le labbra su quelle di un altro; e quando tirano fuori la lingua, allora quello è amore […]”. Eccola la misura di questa raccolta, la spinta che ognuno dei personaggi esercita e che a sua volta subisce è un moto ancestrale, iniziato all’alba dei tempi e sopravviss­uto, mentre tutto si trasformav­a, dentro di noi. Sono le emozioni primordial­i a interessar­e Zardi, la paura che fa scattare una reazione, la solitudine che induce alla morte, e ancora il desiderio, l’attesa, l’inquietudi­ne. La scrittura diventa così un metronomo con cui registrare la cadenza davanti al pericolo, all’amore, all’amarezza e alla disperazio­ne. Sulle singole storie dei protagonis­ti di ogni racconto, si innalza lo sguardo di chi scrive: questa fiducia verso un dispositiv­o, la letteratur­a, capace di setacciare la complessit­à del sentire, separando la luce dalle ombre che ancora persistono.

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