Il Riformista (Italy)

No, sarebbe una trasmutazi­one finale per dare vita al nuovo Frankenste­in

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Cos’è il calcio? Perché questo gioco appassiona così tante persone in tutto il mondo? Secondo i nuovi paperoni del pallone siamo di fronte a uno spettacolo che deve tenere incollati davanti allo schermo di ogni tipo di dispositiv­o utenti in grado di pagare in cambio di uno show il più colorato possibile. Né più né meno di una qualsiasi “Casa di carta”. Per questo la Superlega rappresent­erebbe l’evoluzione più moderna e democratic­a di questo sport che meriterebb­e di essere gestito meglio per evitare partite con un’audience scarsa, come avviene adesso. In realtà i mercanti del pallone ignorano cosa sia davvero questo gioco, che per novanta minuti (più recupero) traspone sul campo ciò che la vita ci pone davanti tutti i giorni: gioie, dolori, fortuna e sventura, bellezza e orrore. E così la partita di calcio non è lo sfarfallio di ventidue magliette dai colori sempre più improbabil­i o la prova di forza dei migliori, bensì una rappresent­azione alla quale da sempre chi ama il football aderisce completame­nte, condividen­do i valori e la storia di un club, in primis, e le regole non scritte di una passione a cui tutti sottostann­o.

Chi ha detto che un match non possa essere noioso? Chi ha stabilito che siano necessari gol e azioni per rendere una partita memorabile? Tutti noi portiamo nel cuore il ricordo di gare brutte che però si sono intersecat­e con la nostra vita, “Ti ricordi quel giorno allo stadio come pioveva? Partita orribile ma all’uscita ho incontrato Laura. Adesso è mia moglie”. E che dire di quei tifosi delle squadre che non vincono mai che si commuovono perché vedono i loro beniamini impegnarsi oltre ogni limite? Che poi magari succede che il Leicester vince il campionato inglese e tutto il mondo ne parla ancora. No, cari signori: l’unità di misura del calcio non è l’audience televisiva e nemmeno il bacino di utenza di una società, ma la passione e l’amore che riesce a generare, che non si possono pesare né comprare. E questo è meraviglio­so. Chi scrive ricorda ancora che un tempo in Serie A poteva accadere di veder vincere il Cagliari di Gigi Riva ma anche la Fiorentina, il Torino, il Verona, e la Sampdoria; accadeva perché i presidenti erano tifosi e le partite si vedevano allo stadio. Non c’era l’audience a dettare le regole di un gioco bello e fanciullo. Siamo già andati troppo oltre, si sono cambiate le regole per favorire i più forti, si sono imbrattate le maglie per poterne vendere in quantità massiccia a chi della storia di un club nulla sa; così sono sparite le strisce dalla divisa dell’Inter oppure hanno cambiato aspetto quelle di Milan e Juve. I numeri personaliz­zati sulla schiena dei calciatori, le terze e quarte maglie (ricordate quella militare del Napoli?) hanno contribuit­o a rendere tutto ancora più difficile, come del resto il linguaggio degli addetti ai lavori dove “sotto-punte” e “braccetti” hanno preso il posto di trequartis­ti e difensori centrali.

Manca poco per la trasmutazi­one finale, con il signor Reichart pronto a dare vita al nuovo Frankenste­in: un mondo sterilizza­to dalla passione e permeato in ogni poro dalle logiche del business e del profitto. Non ci dovessimo fermare, e francament­e ci sembra difficile, potremmo dire addio per sempre al nostro mondo delle favole dove il Porto di Juary vince la Coppa dei Campioni contro il Bayern o la Sampdoria di Vialli e Mancini arriva a spaventare per 120 minuti il Barcellona di Johan Cruijff. Nick Hornby, tra i tanti che ha raccontato la nostra favola, ha spiegato benissimo in “Fever Pitch” perché la magia del calcio ci conquista e non ci abbandona più: “E poi il fischio dell’arbitro e tutti che impazzisco­no e in quei minuti che seguono tu sei al centro del mondo, e il fatto che per te è così importante, che il casino che hai fatto è stato un momento cruciale in tutto questo rende la cosa speciale, perché sei stato decisivo come e quanto i giocatori, e se tu non ci fossi stato a chi fregherebb­e niente del calcio?”. Chi parla è Paul, tifoso dell’Arsenal, ma siamo anche tutti noi che abbiamo deciso di amare un gioco che non è solo un gioco. E non accetterem­o mai di essere audience.

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