“Attaccati da sette fronti” e Netanyahu detta le condizioni per la pace
Il ministro della Difesa Yoav Gallant certifica che il conflitto è ormai regionale. Ancora pesanti raid nella Striscia, mentre sul Wall Street Journal il premier israeliano dice la sua sul futuro di Gaza
Il conflitto tra Hamas e Israele non è solo racchiuso nella Striscia di Gaza, dove si concentra la guerra più dura tra le Israele defense forces e le milizie palestinesi. La sfida ha assunto da subito un carattere regionale, con diversi fronti più o meno vicini allo Stato ebraico ma tutti collegati a quanto accade a Gaza e alla guerra “ombra” che Israele combatte contro l’Iran. A confermare ancora una volta questo schema è stato il ministro della Difesa israeliano, Yoav Gallant, che alla Commissione Affari Esteri del parlamento ha chiarito che Israele è impegnato “in una guerra in più arene” e attaccato “da sette settori diversi: Gaza, Libano, Siria, Cisgiordania, Iraq, Yemen e Iran”. “Abbiamo già reagito e agito su sei di questi fronti, e qui lo dico nel modo più esplicito: chiunque agisca contro di noi è un potenziale bersaglio e non esiste immunità per nessuno” ha affermato il ministro del governo di Benjamin Netanyahu, che ha poi proseguito ribadendo che “lo Stato di Israele saprà cosa fare”. “I risultati a Gaza sono visti e compresi da tutti. Coloro che vedono in particolare sono Hamas, l’Iran e Hezbollah” ha concluso Gallant, che ha poi voluto ricordare ai membri della commissione che la guerra è “lunga e dura” e che “essa ha un prezzo, un prezzo elevato, ma la sua giustificazione è la più alta possibile”. Le dichiarazioni di Gallant, se da un lato confermano quanto già osservato negli oltre 80 giorni di guerra - da quel tragico 7 ottobre che ha cambiato per sempre la vita di Israele e della Striscia di Gaza – dall’altro lato confermano anche gli sviluppi che in queste settimane hanno intrattenuto analisti e commentatori, oltre che i leader delle potenze coinvolte indirettamente nel “grande gioco” della crisi in Medio Oriente. Israele non sembra affatto disposto a cedere di fronte alle pressioni internazionali, quantomeno finché Hamas non sarà stata completamente messa a tacere nella Striscia di Gaza ma anche in altri territori. Allo stesso tempo però, il conflitto regionale è già una realtà, e tutto sembra unito da unico filo rosso. Sotto il primo aspetto, quello della guerra definitiva nei confronti dell’organizzazione che ha compiuto l’attacco del 7 ottobre in territorio israeliano, le cronache dalla Striscia confermano che le Idf non hanno intenzione di fermarsi finché non avranno assestato un colpo decisivo. Ieri mattina le Tsahal, le forze armate dello Stato ebraico, hanno comunicato di avere colpito un centinaio di obiettivi con decine di aerei impegnati in raid in tutta l’exclave palestinesi. I bombardamenti sono stati sia contro l’infrastruttura militare di Hamas, in particolare la rete di tunnel che si snoda sotto la regione, sia contro cellule di miliziani impegnate nei combattimenti contro le forze di Israele. Ma tra questi raid, la Mezzaluna rossa ha denunciato che è stato colpito il proprio quartier generale a Khan Younis, provocando feriti tra gli sfollati che avevano trovato rifugio nel centro. E le indicazioni che giungono dal governo di emergenza nazionale sembrano certificare il desiderio di intensificare gli scontri in vista di un ridimensionamento del conflitto come richiesto anche dagli Stati Uniti, maggiore alleato di Israele.
Il premier Netanyahu, dopo avere visitato il 25 dicembre le truppe impegnate a Gaza, ha detto delle frasi molto precise. “Non ci fermiamo, continuiamo a combattere e intensificheremo i combattimenti nei prossimi giorni”. Queste le parole che lo stesso “Bibi” ha detto ai rappresentanti del Likud di avere pronunciato ai riservisti dispiegati nella città palestinese. E sono frasi che certificano la volontà del governo di andare avanti anche a scapito di un pressing interno e internazionale che sembra ormai diventato difficile da gestire. I parenti degli ostaggi ancora nelle mani di Hamas e delle altre fazioni della Striscia non fermano la loro protesta nei confronti di un governo accusato di non essere riuscito a riportare a casa tutte le persone rapite durante l’assalto del 7 ottobre. Mentre sul fronte internazionale, gli appelli per ridurre le vittime civili, per aumentare gli aiuti umanitari alla popolazione palestinese e per giungere a un accordo per una tregua sono sempre più numerosi. Le Nazioni Unite hanno sottolineato nuovamente la loro grave preoccupazione “per il continuo bombardamento della Striscia di Gaza centrale da parte delle forze israeliane”, mentre per le celebrazioni di Natale e Santo Stefano sono giunti anche i nuovi accorati appelli di Papa Francesco per una soluzione pacifica al conflitto. Netanyahu, in un editoriale apparso sul quotidiano statunitense Wall Street Journal, ha messo nero su bianco quello che è il suo piano per quanto riguarda la guerra in corso e il futuro di quei territori teatro dell’invasione. Per il primo ministro israeliano, è opportuno “smantellare il gruppo terroristico”, cioè Hamas, e per raggiungere lo scopo, “le sue capacità militari devono essere distrutte e il suo dominio politico su Gaza deve finire”. Una volta raggiunta questa condizione, l’obiettivo dello Stato ebraico è quello di istituire “una zona di sicurezza temporanea sul perimetro di Gaza e un meccanismo di ispezione al confine tra Gaza ed Egitto che soddisfi le esigenze di sicurezza di Israele e impedisca il contrabbando di armi nel territorio”. Ma questa nuova realtà della Striscia, a detta di Netanyahu, non potrà essere garantita dall’Autorità nazionale palestinese che, secondo il premier, “finanzia e glorifica il terrorismo in Giudea e Samaria ed educa i bambini palestinesi a cercare la distruzione di Israele”. Proprio per discutere di questo delicato dossier del dopoguerra, Netanyahu ha inviato negli Stati Uniti il ministro per gli Affari strategici Ron Dermer. L’obiettivo è parlare con i più alti funzionari di Washington sul futuro della guerra ma anche della regione. Mentre da nord, un missile di Hezbollah caduto sulla chiesa ortodossa di Iqrit, nel nord di Israele, conferma i timori per un’escalation che coinvolga il Libano.
Potrebbe sembrare un tecnicismo. Ma la proposta di modifica costituzionale presentata in Senato dal meloniano Alberto Balboni è la cartina di tornasole di certe convergenze ideologiche tra populisti e sovranisti. Che hanno più cose in comune di quanto si pensi. E così l’inaspettato asse tra M5S e Fratelli d’Italia si materializza di nuovo su un tema spinoso come l’inserimento in Costituzione della tutela delle vittime dei reati. Parliamo di una riga di modifica all’articolo 111 della Carta Costituzionale. Poche parole, che stanno scomponendo gli schieramenti. Eccole: “La Repubblica tutela le vittime di reato e le persone danneggiate dal reato”. Una frase che può apparire generica, ma che in realtà apre le porte a una ridefinizione degli equilibri del processo penale. Tanto più importante perché proposta dal presidente della Commissione Affari Costituzionali di Palazzo Madama. La stessa commissione dove è iniziato l’iter del disegno di legge sul premierato, di cui proprio Balboni è relatore. Una modifica costituzionale a tema giustizia, che ridiventa improvvisamente attuale e accende il dibattito, anche alla luce di un contesto in cui FdI vuole cambiare la Carta attraverso l’introduzione dell’elezione del presidente del Consiglio. Sul tema della tutela delle vittime, però, ognuno pare muoversi a titolo personale. E fioccano i distinguo anche all’interno della maggioranza. Mentre la proposta di Balboni viene accolta favorevolmente dall’ex Pm antimafia Roberto Scarpinato, eletto senatore dei Cinque Stelle in quota giustizialista e legalitaria. Un bel cortocircuito, per una maggioranza che spesso ha incrociato polemicamente le spade proprio con le toghe. L’ultimo episodio? Le dichiarazioni del ministro della Difesa Guido Crosetto su presunti complotti orditi da alcuni settori della magistratura per mettere in difficoltà il governo di Giorgia Meloni tramite inchieste giudiziarie. “La legge garantisce i diritti e le facoltà delle vittime del reato”, recita anche l’ipotesi Balboni. Che, dunque, si propone di andare oltre l’attuale tutela della parte civile all’interno del dibattito processuale penale. Un terzo attore, oltre all’accusa e alla difesa, con piena cittadinanza processuale, che potrà quindi godere di tutte le norme dettate a garanzia della persona accusata. Il tutto elevato al rango di protezione costituzionale. Perciò se ne discute in Commissione Affari Costituzionali, con il coinvolgimento della Commissione Giustizia. Da qui arriva l’assist di Scarpinato, il soccorso grillino. “Valuto positivamente la proposta, perché recepisce le indicazioni sulla tutela delle vittime di reato, e perché valorizza l’importante ruolo svolto dalle parti civili nell’ambito del processo penale”, apre l’ex Procuratore Generale presso la Corte d’Appello di Palermo. Scarpinato prende a modello il processo per la morte di Stefano Cucchi e quello sulla bomba del 2 agosto 1980 alla stazione di Bologna. Entrambi esempi, secondo l’ex magistrato, dove le parti civili “hanno favorito la possibilità di reperire di elementi probatori che altrimenti sarebbero rimasti ignoti al pubblico ministero”. E ancora Scarpinato: “L’aumento di una tutela costituzionale per le vittime di reato supererebbe altresì le limitazioni presenti nella riforma Cartabia, che reca disposizioni di natura esclusivamente risarcitoria e trascura il danno morale subito dalla vittima, che potrebbero più efficacemente essere valutate sul piano della legittimità costituzionale”.
Da Fratelli d’Italia rimangono in silenzio, ma cova sotto la cenere il dualismo tra l’ala più law and order di derivazione post-missina e gli esponenti di tradizione liberale e garantista, come il ministro della giustizia Carlo Nordio, ma anche il titolare della Difesa Crosetto. Una divaricazione tra diverse sensibilità interne a FdI che prima o poi potrebbe esplodere. Perciò Via della Scrofa ha interesse a tenere bassi i toni della polemica sulla modifica dell’art.111 della Costituzione, anche per non pregiudicare il percorso verso il premierato. Da Forza Italia, invece, esprime perplessità il capogruppo in Commissione Giustizia Pierantonio Zanettin, di professione avvocato. Zanettin avverte sui rischi della modifica proposta dal collega di FdI: “In tempi recenti si è imposta l’idea sostenuta anche da robuste campagne mediatiche che la sentenza pronunciata dal giudice debba essere il più possibile aderente al concetto di giustizia proprio della parte offesa. Il fenomeno prende a tal punto piede che le stesse Corti di assise hanno finito per essere fortemente condizionate dall’opinione del pubblico e dalla stampa con conseguente pregiudizio delle garanzie costituzionali”. Non a caso, una proposta simile è stata fatta alla Camera a luglio da Luana Zanella, di Alleanza Verdi e Sinistra. Dalla Lega arriva l’avvertimento di Erika Stefani: “Andrebbe attentamente valutato il rischio di arrivare a configurare il processo penale come una sostanziale composizione degli interessi contrapposti delle parti”. Per l’opposizione frena il senatore di Italia Viva Ivan Scalfarotto: “Il processo penale non è solo una questione tra la vittima e l’autore del reato”. Scalfarotto denuncia “una pericolosa tendenza alla privatizzazione del processo penale che tende ad assecondare le emozioni legittime delle vittime e il loro apprezzamento o meno di una sentenza”. Il senatore di Iv conclude: “Il protagonista di un processo penale non è soltanto la parte lesa ma, appunto, anche il popolo italiano il nome del quale si emettono le sentenze”.