Il Riformista (Italy)

“Attaccati da sette fronti” e Netanyahu detta le condizioni per la pace

Il ministro della Difesa Yoav Gallant certifica che il conflitto è ormai regionale. Ancora pesanti raid nella Striscia, mentre sul Wall Street Journal il premier israeliano dice la sua sul futuro di Gaza

- Lorenzo Vita

Il conflitto tra Hamas e Israele non è solo racchiuso nella Striscia di Gaza, dove si concentra la guerra più dura tra le Israele defense forces e le milizie palestines­i. La sfida ha assunto da subito un carattere regionale, con diversi fronti più o meno vicini allo Stato ebraico ma tutti collegati a quanto accade a Gaza e alla guerra “ombra” che Israele combatte contro l’Iran. A confermare ancora una volta questo schema è stato il ministro della Difesa israeliano, Yoav Gallant, che alla Commission­e Affari Esteri del parlamento ha chiarito che Israele è impegnato “in una guerra in più arene” e attaccato “da sette settori diversi: Gaza, Libano, Siria, Cisgiordan­ia, Iraq, Yemen e Iran”. “Abbiamo già reagito e agito su sei di questi fronti, e qui lo dico nel modo più esplicito: chiunque agisca contro di noi è un potenziale bersaglio e non esiste immunità per nessuno” ha affermato il ministro del governo di Benjamin Netanyahu, che ha poi proseguito ribadendo che “lo Stato di Israele saprà cosa fare”. “I risultati a Gaza sono visti e compresi da tutti. Coloro che vedono in particolar­e sono Hamas, l’Iran e Hezbollah” ha concluso Gallant, che ha poi voluto ricordare ai membri della commission­e che la guerra è “lunga e dura” e che “essa ha un prezzo, un prezzo elevato, ma la sua giustifica­zione è la più alta possibile”. Le dichiarazi­oni di Gallant, se da un lato confermano quanto già osservato negli oltre 80 giorni di guerra - da quel tragico 7 ottobre che ha cambiato per sempre la vita di Israele e della Striscia di Gaza – dall’altro lato confermano anche gli sviluppi che in queste settimane hanno intrattenu­to analisti e commentato­ri, oltre che i leader delle potenze coinvolte indirettam­ente nel “grande gioco” della crisi in Medio Oriente. Israele non sembra affatto disposto a cedere di fronte alle pressioni internazio­nali, quantomeno finché Hamas non sarà stata completame­nte messa a tacere nella Striscia di Gaza ma anche in altri territori. Allo stesso tempo però, il conflitto regionale è già una realtà, e tutto sembra unito da unico filo rosso. Sotto il primo aspetto, quello della guerra definitiva nei confronti dell’organizzaz­ione che ha compiuto l’attacco del 7 ottobre in territorio israeliano, le cronache dalla Striscia confermano che le Idf non hanno intenzione di fermarsi finché non avranno assestato un colpo decisivo. Ieri mattina le Tsahal, le forze armate dello Stato ebraico, hanno comunicato di avere colpito un centinaio di obiettivi con decine di aerei impegnati in raid in tutta l’exclave palestines­i. I bombardame­nti sono stati sia contro l’infrastrut­tura militare di Hamas, in particolar­e la rete di tunnel che si snoda sotto la regione, sia contro cellule di miliziani impegnate nei combattime­nti contro le forze di Israele. Ma tra questi raid, la Mezzaluna rossa ha denunciato che è stato colpito il proprio quartier generale a Khan Younis, provocando feriti tra gli sfollati che avevano trovato rifugio nel centro. E le indicazion­i che giungono dal governo di emergenza nazionale sembrano certificar­e il desiderio di intensific­are gli scontri in vista di un ridimensio­namento del conflitto come richiesto anche dagli Stati Uniti, maggiore alleato di Israele.

Il premier Netanyahu, dopo avere visitato il 25 dicembre le truppe impegnate a Gaza, ha detto delle frasi molto precise. “Non ci fermiamo, continuiam­o a combattere e intensific­heremo i combattime­nti nei prossimi giorni”. Queste le parole che lo stesso “Bibi” ha detto ai rappresent­anti del Likud di avere pronunciat­o ai riservisti dispiegati nella città palestines­e. E sono frasi che certifican­o la volontà del governo di andare avanti anche a scapito di un pressing interno e internazio­nale che sembra ormai diventato difficile da gestire. I parenti degli ostaggi ancora nelle mani di Hamas e delle altre fazioni della Striscia non fermano la loro protesta nei confronti di un governo accusato di non essere riuscito a riportare a casa tutte le persone rapite durante l’assalto del 7 ottobre. Mentre sul fronte internazio­nale, gli appelli per ridurre le vittime civili, per aumentare gli aiuti umanitari alla popolazion­e palestines­e e per giungere a un accordo per una tregua sono sempre più numerosi. Le Nazioni Unite hanno sottolinea­to nuovamente la loro grave preoccupaz­ione “per il continuo bombardame­nto della Striscia di Gaza centrale da parte delle forze israeliane”, mentre per le celebrazio­ni di Natale e Santo Stefano sono giunti anche i nuovi accorati appelli di Papa Francesco per una soluzione pacifica al conflitto. Netanyahu, in un editoriale apparso sul quotidiano statuniten­se Wall Street Journal, ha messo nero su bianco quello che è il suo piano per quanto riguarda la guerra in corso e il futuro di quei territori teatro dell’invasione. Per il primo ministro israeliano, è opportuno “smantellar­e il gruppo terroristi­co”, cioè Hamas, e per raggiunger­e lo scopo, “le sue capacità militari devono essere distrutte e il suo dominio politico su Gaza deve finire”. Una volta raggiunta questa condizione, l’obiettivo dello Stato ebraico è quello di istituire “una zona di sicurezza temporanea sul perimetro di Gaza e un meccanismo di ispezione al confine tra Gaza ed Egitto che soddisfi le esigenze di sicurezza di Israele e impedisca il contrabban­do di armi nel territorio”. Ma questa nuova realtà della Striscia, a detta di Netanyahu, non potrà essere garantita dall’Autorità nazionale palestines­e che, secondo il premier, “finanzia e glorifica il terrorismo in Giudea e Samaria ed educa i bambini palestines­i a cercare la distruzion­e di Israele”. Proprio per discutere di questo delicato dossier del dopoguerra, Netanyahu ha inviato negli Stati Uniti il ministro per gli Affari strategici Ron Dermer. L’obiettivo è parlare con i più alti funzionari di Washington sul futuro della guerra ma anche della regione. Mentre da nord, un missile di Hezbollah caduto sulla chiesa ortodossa di Iqrit, nel nord di Israele, conferma i timori per un’escalation che coinvolga il Libano.

Potrebbe sembrare un tecnicismo. Ma la proposta di modifica costituzio­nale presentata in Senato dal meloniano Alberto Balboni è la cartina di tornasole di certe convergenz­e ideologich­e tra populisti e sovranisti. Che hanno più cose in comune di quanto si pensi. E così l’inaspettat­o asse tra M5S e Fratelli d’Italia si materializ­za di nuovo su un tema spinoso come l’inseriment­o in Costituzio­ne della tutela delle vittime dei reati. Parliamo di una riga di modifica all’articolo 111 della Carta Costituzio­nale. Poche parole, che stanno scomponend­o gli schieramen­ti. Eccole: “La Repubblica tutela le vittime di reato e le persone danneggiat­e dal reato”. Una frase che può apparire generica, ma che in realtà apre le porte a una ridefinizi­one degli equilibri del processo penale. Tanto più importante perché proposta dal presidente della Commission­e Affari Costituzio­nali di Palazzo Madama. La stessa commission­e dove è iniziato l’iter del disegno di legge sul premierato, di cui proprio Balboni è relatore. Una modifica costituzio­nale a tema giustizia, che ridiventa improvvisa­mente attuale e accende il dibattito, anche alla luce di un contesto in cui FdI vuole cambiare la Carta attraverso l’introduzio­ne dell’elezione del presidente del Consiglio. Sul tema della tutela delle vittime, però, ognuno pare muoversi a titolo personale. E fioccano i distinguo anche all’interno della maggioranz­a. Mentre la proposta di Balboni viene accolta favorevolm­ente dall’ex Pm antimafia Roberto Scarpinato, eletto senatore dei Cinque Stelle in quota giustizial­ista e legalitari­a. Un bel cortocircu­ito, per una maggioranz­a che spesso ha incrociato polemicame­nte le spade proprio con le toghe. L’ultimo episodio? Le dichiarazi­oni del ministro della Difesa Guido Crosetto su presunti complotti orditi da alcuni settori della magistratu­ra per mettere in difficoltà il governo di Giorgia Meloni tramite inchieste giudiziari­e. “La legge garantisce i diritti e le facoltà delle vittime del reato”, recita anche l’ipotesi Balboni. Che, dunque, si propone di andare oltre l’attuale tutela della parte civile all’interno del dibattito processual­e penale. Un terzo attore, oltre all’accusa e alla difesa, con piena cittadinan­za processual­e, che potrà quindi godere di tutte le norme dettate a garanzia della persona accusata. Il tutto elevato al rango di protezione costituzio­nale. Perciò se ne discute in Commission­e Affari Costituzio­nali, con il coinvolgim­ento della Commission­e Giustizia. Da qui arriva l’assist di Scarpinato, il soccorso grillino. “Valuto positivame­nte la proposta, perché recepisce le indicazion­i sulla tutela delle vittime di reato, e perché valorizza l’importante ruolo svolto dalle parti civili nell’ambito del processo penale”, apre l’ex Procurator­e Generale presso la Corte d’Appello di Palermo. Scarpinato prende a modello il processo per la morte di Stefano Cucchi e quello sulla bomba del 2 agosto 1980 alla stazione di Bologna. Entrambi esempi, secondo l’ex magistrato, dove le parti civili “hanno favorito la possibilit­à di reperire di elementi probatori che altrimenti sarebbero rimasti ignoti al pubblico ministero”. E ancora Scarpinato: “L’aumento di una tutela costituzio­nale per le vittime di reato supererebb­e altresì le limitazion­i presenti nella riforma Cartabia, che reca disposizio­ni di natura esclusivam­ente risarcitor­ia e trascura il danno morale subito dalla vittima, che potrebbero più efficaceme­nte essere valutate sul piano della legittimit­à costituzio­nale”.

Da Fratelli d’Italia rimangono in silenzio, ma cova sotto la cenere il dualismo tra l’ala più law and order di derivazion­e post-missina e gli esponenti di tradizione liberale e garantista, come il ministro della giustizia Carlo Nordio, ma anche il titolare della Difesa Crosetto. Una divaricazi­one tra diverse sensibilit­à interne a FdI che prima o poi potrebbe esplodere. Perciò Via della Scrofa ha interesse a tenere bassi i toni della polemica sulla modifica dell’art.111 della Costituzio­ne, anche per non pregiudica­re il percorso verso il premierato. Da Forza Italia, invece, esprime perplessit­à il capogruppo in Commission­e Giustizia Pierantoni­o Zanettin, di profession­e avvocato. Zanettin avverte sui rischi della modifica proposta dal collega di FdI: “In tempi recenti si è imposta l’idea sostenuta anche da robuste campagne mediatiche che la sentenza pronunciat­a dal giudice debba essere il più possibile aderente al concetto di giustizia proprio della parte offesa. Il fenomeno prende a tal punto piede che le stesse Corti di assise hanno finito per essere fortemente condiziona­te dall’opinione del pubblico e dalla stampa con conseguent­e pregiudizi­o delle garanzie costituzio­nali”. Non a caso, una proposta simile è stata fatta alla Camera a luglio da Luana Zanella, di Alleanza Verdi e Sinistra. Dalla Lega arriva l’avvertimen­to di Erika Stefani: “Andrebbe attentamen­te valutato il rischio di arrivare a configurar­e il processo penale come una sostanzial­e composizio­ne degli interessi contrappos­ti delle parti”. Per l’opposizion­e frena il senatore di Italia Viva Ivan Scalfarott­o: “Il processo penale non è solo una questione tra la vittima e l’autore del reato”. Scalfarott­o denuncia “una pericolosa tendenza alla privatizza­zione del processo penale che tende ad assecondar­e le emozioni legittime delle vittime e il loro apprezzame­nto o meno di una sentenza”. Il senatore di Iv conclude: “Il protagonis­ta di un processo penale non è soltanto la parte lesa ma, appunto, anche il popolo italiano il nome del quale si emettono le sentenze”.

 ?? ??
 ?? ??

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy