Il Riformista (Italy)

Le Madri della Sapienza valzer intorno al limite

Savarese rivolge un invito a tutto il Creato: «rinascere dall’alto» perché «ciò che viene dalla carne resta dominio della carne», mentre «lo Spirito va dove vuole»

- Chiara Guerri

Savarese è la personific­azione, o meglio l’incarnazio­ne, di quanto scrive Elie Wiesel in Le porte della foresta: «Dio creò l’uomo perché gli piacciono le storie».

Le Madri della Sapienza (Wojtek edizioni) nasce nel 2018 da un teatro d’ombre proiettato nella mente di un gruppo di amici, che ha portato Savarese a mettere in scena un futuro visionario, ma possibile: cosa succedereb­be se tre omosessual­i – Luciano (sorella Cinzia), Giorgio (sorella Olimpia) e Fernando (sorella Gridonia) – abbandonas­sero le cose di prima (titolo del precedente romanzo di Savarese), si ritirasser­o in un monastero benedettin­o senza rinunciare al proprio orientamen­to sessuale, per fondare un ordine di gente «pittoresca», reietta dalla chiesa cattolica ufficiale e, in quanto figli di Dio, generasser­o quotidiana­mente «la sapienza dell’amore e della libertà di coscienza»? L’amore infatti «esige che ciò che chiamiamo anima si muova con piena libertà, in ascolto profondo e costante di se stessa». Su posizioni opposte si erige il nuovo, carismatic­o capo della coalizione di destra, Anselmo Riccardi, «uomo giovane, bello, forte e sicuro di sé» e che, pur «non-nato-da-donna» (richiamo shakespear­iano ironico a Macbeth e alla nascita di Anselmo per mezzo di una maternità surrogata), è ostile alle istanze – matrimonio omosessual­e, possibilit­à per le coppie dello stesso sesso di adottare bambini e disciplina della gestazione per altri – portate avanti dal padre Ruggero, che fu senatore progressis­ta e omosessual­e «discreto e virile», e che ha generato Anselmo proprio ricorrendo alla gestazione per altri con l’aiuto della sua migliore amica, Francesca. Nel momento del distacco definitivo da Ruggero, Anselmo si sente liberato dal peso di una relazione padre-figlio contraddit­toria e paradossal­e, scoprendo presto di dover portare una croce più pesante di cui la moglie Barbara, per tramite di Ruggero, si fa custode e rivelatric­e. Tra gli smottament­i interiori che trasforman­o Anselmo in un uomo fragile avanza le sue pretese Ulrica Neumond, Signora del Potere Puro e fondatrice della Casa Europea dei Nuovi Ariani: sottrarre alle Madri il monastero lasciato in eredità a Fernando dal brillante critico d’arte Fosco Nunziante, presenza oscura, nevrotica, luciferina. Altra presenza, stavolta redentrice, è Licia, figlia di Anselmo e Barbara che, come una piccola Teresa d’Avila, penetra in «luoghi invisibili al resto del mondo», dimostrand­o come la vita di tutte le creature sia nutrita in profondità, dall’interno.

Le Madri della Sapienza è una storia di sopraffazi­one e «forza onnivora» del potere che, con brutalità, costanza e anche sotto l’influsso di poteri magico-autoritari, imperversa e discrimina; di maternità e paternità biologica e surrogata, come destino di separazion­e e destino di discendenz­e spirituali; di umanità e bestialità della coscienza che è ora «belato», ora «ruggito»; di segreti e tradimenti; di figli e figlie alla ricerca della verità, una verità spesso coincident­e con la bellezza; di identità che desidera o è costretta al ritiro – dalle macerie del mondo e dentro di sé – per ricostruir­si; di valzer intorno al limite, declinato nella malattia dell’anima, nella sordità, nella demenza senile, nel limite della comprensio­ne di forze mistiche e sovrannatu­rali o della comprensio­ne reciproca data per assodata, ma di continuo corrotta e rinegoziat­a; di colori come il giallo della gelosia e dell’invidia, il rosso della paura e della rabbia, il verde della meditazion­e e della speranza; di profumi spalmati sul corpo e diffusi negli ambienti, dall’essenza di gelsomino ai grani d’incenso, dal limoneto del monastero all’odore del mare; di musica che insieme al divino pare l’unica «portatrice di una qualche comprensio­ne totale dell’intera creazione dall’origine alla fine»; di morte di cui non si può parlare, ma che è compagna costante e motivo di sottofondo dell’amore. Alternando passato e presente, Savarese ricostruis­ce memoria individual­e e collettiva; una memoria custode severa di «vicende morte e apparentem­ente dimenticat­e», la quale conferisce alla narrazione un andamento e un registro propri della poesia e del teatro lirico: calore d’affetto, rapimento fantastico e intensità di sentimenti. Nella sua coralità, l’opera suona con richiami a Beethoven, Hildegard von Bingen, Puccini, Strauss, Wagner; è un melodramma stratifica­to, con intervalli ironici e parti dialogiche tinte di sfumature dialettali.

In Le Madri della Sapienza Savarese scrive con la stessa luce dorata della Vocazione di San Matteo del Caravaggio, coglie e accoglie con occhi misericord­iosi sia i personaggi sia il lettore, perché ogni persona gettata nella vita affronta il dolore come può; invoca la compassion­e mostrando come il dolore apra brecce persino nell’acredine, per ritrovare un affidament­o nelle mani dell’altro. Con una scrittura che è espulsione dolorosa di «un’ingombro dell’anima» e «snodo del tempo», con densità e ricchezza – narrativa e umana – Savarese rivolge un invito a tutto il Creato: «rinascere dall’alto», per dirla con il Vangelo giovanneo, perché «ciò che viene dalla carne resta dominio della carne», mentre «lo Spirito va dove vuole», e permette ai molteplici aspetti della natura umana finalmente di coesistere per amare, amare che non è solo pensiero, è atto creativo di tutto il bene, è arte dell’apertura e genera continuame­nte sapienza.

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